Inseguendo la chimera pt.3
NOTE A PARTIRE DALL’OPERAZIONE SCINTILLA
Dopo mesi concitati, nel tentativo di dare una degna risposta allo sgombero dell’Asilo e all’arresto di sei compagni e compagne, nel tentativo di mantenere viva la voglia di lottare in questa città, ci prendiamo ora il tempo di fare alcuni ragionamenti su questo teorema inquisitorio partorito dalla Questura, fatto proprio dalla Procura e avvallato da una GIP. Un teorema che per il momento non ha retto il primo impatto con il Tribunale del Riesame, dopo tre mesi sono infatti usciti dal carcere cinque compagni, ma che costringe ancora Silvia tra quelle mura e in condizioni di detenzione particolarmente afflittive.
A indagini ancora aperte vale la pena spendere sopra queste carte qualche parola, tra le altre cose perché contiene alcune indicazioni che sono il segno dei tempi su come costringere certi anarchici al silenzio, seppur non del tutto nuove. Già quindici anni fa infatti si poteva leggere in un libretto, dal titolo ‘L’anarchismo al bando’, di come le strategie repressive mirassero a “togliere agli anarchici ogni possibilità di agire in gruppi di più persone articolando anche alla luce del sole il loro intervento, proprio in quanto finalizzato all’insurrezione generalizzata”.
Questo lavoro di analisi uscirà a puntate, una alla settimana, che si concentreranno su alcune specificità dell’operazione Scintilla e della lotta contro i Centri di detenzione per immigrati. A scriverle sono alcuni compagni, alcuni imputati e indagati in quest’inchiesta, altri no, che nel corso degli anni si sono battuti contro la detenzione amministrativa.
Segugi e alchimisti
A voler sviscerare nel dettaglio le strategie repressive della controparte, capire cosa pensa ed entro quali confini tenta sempre più di rinchiuderci, non possiamo esimerci dall’intraprendere una prima disamina del modo in cui queste strategie vengono poste in atto. Addentriamoci dunque nel tunnel della tecnica repressiva e degli strumenti più o meno raffinati che porta con sé, dando un primo sguardo ai sessantasei gigabyte di faldoni che hanno accompagnato l’ordinanza di custodia cautelare.
A chi si è trovato a spulciare questa mole di dati è saltata subito all’occhio una prassi oramai consolidata da parte delle forze di polizia e già vista in altre vicende processuali: raccogliere migliaia e migliaia di pagine di intercettazioni. Si parla di almeno quattro anni di intercettazioni, principalmente effettuate sulle utenze telefoniche di singole compagne e compagni, sul telefono delle espulsioni, oltre a quelle ambientali dell’occupazione di c.so Giulio Cesare. Un orecchio indiscreto è stato poi introdotto nell’abitazione privata di una ragazza in cui, secondo la Digos, avrebbe vissuto per un periodo uno dei compagni imputati, cosa che invece non è mai successa, mostrando quindi quanto basti una semplice supposizione per autorizzare a ficcare il naso negli affari di persone non solo non indagate ma anche non così centrali nelle reti di relazioni e rapporti dei compagni e delle compagne imputate. Per l’occasione è stato persino scomodato un fabbro da Roma per scassinare e fare le copie delle chiavi dell’appartamento, senza contare che le microspie (per non sbagliare) sono state lasciate in casa pronte ad essere attivate all’occorrenza, anche se la Digos aveva espressamente richiesto all’epoca di stoppare l’intercettazione perché non era stato rilevato materiale utile in senso probatorio. Risultano infine registrati anche i colloqui nel C.P.R. tra un recluso e una compagna.
Sappiamo già come le indagini per reati associativi o con finalità di terrorismo servano anche a garantire un monitoraggio costante su gruppi di compagni e su tutto ciò che gli ruota attorno. Ma in questo caso spicca con particolare evidenza come il mezzo, per il semplice fatto di essere utilizzato, contribuisca alla costruzione di ciò che dovrebbe soltanto monitorare. Non è un caso quindi che le intercettazioni vengano usate non solo per tentar di scoprire la paternità di azioni notturne o anonime, ma sopratutto per ricostruire reti di relazioni, iniziative ed episodi che nessuno ha mai avuto particolare interesse a nascondere. “I servizi tecnici hanno consentito di riscontare…”, ricorre costantemente nelle pagine degli inquirenti in relazione alla paternità di opuscoli e articoli discussi nelle più svariate situazioni pubbliche, a partire dal noto I Cieli Bruciano. Origliare le conversazioni per scoprire chi amministrava la pagina Facebook No Cie, chi scriveva sul blog Macerie, chi comprava i fuochi artificiali per i saluti e le iniziative, ammantando di un’aurea di clandestinità tutta quella parte di lotta allargata e condivisa tra tante persone ostili alla macchina delle espulsioni. Come se dicessero “erano un’associazione sovversiva perché abbiamo dovuto spiarli per scoprirlo”.
C’è da dire che la raccolta smodata di informazioni, di svariati tipi e formati digitali (testi, audio, video, foto) permea l’intera attività di indagine e fa emergere più di una questione. Toccherà porsi ad esempio il problema di come gli agenti della digos riescano oramai ad infilarsi ovunque, fin dentro le aule universitarie durante le conferenze anti-gentrification di qualche professore, per contare le presenze e le assenze delle compagini militanti cittadine. Nel caso di quest’inchiesta i faldoni pullulano di segnalazioni sulle più minime iniziative, non solo su CPR e immigrazione, per individuare chi partecipava agli attacchinaggi o chi lanciava i cori durante presidi e cortei. Una mole di dati da cui pescare a piacimento per corroborare un’organigramma della supposta associazione sovversiva tramite fantasiose suddivisioni di ruoli, presenze e carisma dei vari appartenenti.
Lo stesso meccanismo, in un certo qual modo, lo ritroviamo anche nelle comparazioni antropometriche legate ai tentativi di incendio dei Postamat attribuiti a due delle compagne indagate. Tutto verte sul delineare alcune caratteristiche fisiche generali, entro le quali iscrivere gli “elementi altamente caratterizzanti” che nel nostro caso sarebbero il modo in cui una compagna appoggia il piede destro nella camminata, e la maniera in cui l’altra si sistema i capelli e muove il braccio mentre deambula. Le caratteristiche generali riguardano invece la stazza fisica, riportabile a tre macrocategorie: ectomorfa, mesomorfa ed endomorfa. Ad esempio una compagna corrispondente alla seconda categoria avrebbe un “corpo atletico, forte, con spalle più strette rispetto alla parte bassa del corpo (forma a triangolo)”. Una descrizione a dir poco generica e vaga, considerando anche che la stima sull’altezza oscilla in un range di 5/8 centimetri. Non è un caso che nella comparazione dei due attacchi ai Postamat di via Ternengo e via Montebello, il perito della Procura abbia inizialmente espresso un giudizio di parziale compatibilità tra le due persone travisate, salvo poi ricredersi e individuare due compagne diverse. Come e quando sono quindi emersi questi elementi altamente caratterizzanti che hanno portato la polizia ad arrestare le due compagne? Nel primo caso, quello della camminata e dell’appoggio del piede destro, il paragone è stato fatto a partire dalle riprese di quella notte, altamente pixelate, dove nel soggetto travisato a stento si capisce dove finisce il pantalone e inizia il piede. Nel secondo caso vien da pensare che a forza di accumulare video su video di qualsiasi iniziativa o dei più svariati momenti nella quotidianità di una persona, è facile che alla fine si riesca a trovare almeno una manciata di frame in cui qualcuno si sistemi i capelli in maniera simile. Anche qui sembra che il mezzo stesso vada a determinare, a priori, il risultato cercato.
Dalla quantità di video prodotti in merito agli episodi notturni di cui abbiamo parlato, abbiamo poi l’ennesima conferma del futuro distopico che ci attende nelle metropoli, e non solo. Un futuro che è già presente: le città sono piene zeppe di occhi silenziosi e acuminati, che monitorano i grandi istituti come le Poste o i consolati così come le piccole attività, quali negozietti e farmacie. La rete capillare di telecamere pubbliche e private permette di seguire una persona per diverse decine di minuti cercando di cogliere il momento in cui, anche molto lontano dal luogo del misfatto, qualcuno può scoprire il volto o salire su un auto così da poterne scoprire l’identità. Nell’inchiesta Scintilla non sono servite a molto, ma dall’analisi dei filmati si capisce quanto questi occhi, anche quando sono nascosti dentro involucri di modeste dimensioni quasi a sembrare dei giocattolini, in realtà ci vedono lungo e ad ampio raggio, fino a raggiungere incroci e marciapiedi opposti.
Continuando questo cammino attraverso gli strumenti del nemico arriviamo a un’altra tecnologia, che sebbene non abbia fornito importanti elementi indiziari nell’inchiesta Scintilla è stata usata in modo creativo: il real-time positioning, un servizio di rilevamento e segnalazione in tempo reale della posizione esatta dei dispositivi abbinati ad utenze telefoniche. In questo caso il servizio è stato richiesto anche per rilevare l’avvicinamento o la presenza di determinate utenze e di ogni altro dispositivo a certi luoghi ritenuti sensibili quali: Asilo Occupato (con tanto di differenza tra perimetro e cortile interno), C.P.R., Rifugio autogestito Chez Jesus e la residenza di un compagno indagato. Sarà per questo, tra le altre cose, che spesso e volentieri quando dei solidali si recavano sotto le mura del lager di corso Brunelleschi per salutare i reclusi senza averlo annunciato, trovavano la digos ad aspettarli? Non è dato saperlo, ma nel dubbio… anche per un saluto può essere meglio lasciare il telefono a casa.
Dulcis in fundo non manca l’ormai arcinota analisi biomolecolare, o per noi profani test del DNA. Gli inquirenti avrebbero trovato tracce biologiche e impronte digitali in alcuni plichi esplosivi, come quelli diretti alla ditte Morello, Manital Idea, Igeam e Cerma, nonché sugli ordigni attribuiti alle nostre due compagne inquisite. Nessun confronto ha tuttavia dato riscontro positivo con gli attuali indagati.
Un’ultima nota di colore: a un primo e sommario conto, solo di bollette pagate alla Tim per trasmettere i dati delle intercettazioni ambientali e video e per le varie perizie, si raggiunge la cifra di 181.000 euro. Una cifra considerevole, tanto più se si pensa alle altre spese sostenute dagli inquirenti durante l’inchiesta che la renderanno senz’altro ben più cospicua. Nulla in confronto, in ogni caso, rispetto al milione di euro abbondante che, sempre stando alle carte, si è speso dal 2015 al 2017 nelle ristrutturazioni straordinarie del CPR di corso Brunelleschi distrutto dalle rivolte.
Se vi siete persi le prime puntate di Inseguendo la chimera potete leggerle cliccando sotto.