Contro correnti avverse

Sono passati tredici giorni dall’annuncio dell’inizio dello sciopero della fame di Silvia e Anna, parecchie cose sono successe. A proprio modo ognuno ha fatto il suo, altri compagni detenuti si sono aggiunti al digiuno di protesta e la maggior parte di loro sta continuando al fianco di Silvia e Anna.

Nel carcere de L’Aquila le ragazze sono state convocate dall’ispettrice che ha consigliato loro vivamente di smettere lo sciopero, perché così si sarebbero arrecate danno alla salute. Questo tentativo di persuasione ha fortificato la tenacia e la determinazione nel continuare. L’amministrazione carceraria ha, inoltre, risposto picche alla richiesta di Silvia e Anna di usufruire dell’ora di socialità prandiale nonostante il digiuno.

Fuori i messaggi di solidarietà continuano ad apparire giorno dopo giorno. La giornata di venerdì ha disseminato presidi davanti agli uffici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in giro per l’Italia, presidi che hanno avuto il merito di indicare i responsabili dell’organizzazione della sofferenza dei detenuti. A Bologna un gruppo di compagni e compagne ha interrotto il silenzio della biblioteca “Sala Borsa” dove era esposta una mostra dal titolo Ri#Belle sul tema donne e carcere. Nei giorni prima altri interventi hanno dato utili indicazioni, ci sono state scritte e imbrattamenti su negozi delle compagnie telefoniche che hanno in appalto la gestione del sistema di videoconferenza che “porta” i detenuti a processo, a Trento c’è stato un blocco stradale alla faccia di questi tempi bui in cui si rischia di essere accusati per aver buttato una cartaccia per terra. Si è preso di mira chi porta il lavoro dentro le mura del carcere pagando due spicci i detenuti, differenziandoli e mettendoli in concorrenza l’uno tra l’altro.

In questa battaglia la posta in gioco non è solo la situazione contingente in cui Anna e Silvia sono recluse. Dall’inizio dell’anno le operazioni giudiziarie, per una ragione o per un’altra, costruite mangiando codici penali, guardando poliziotteschi scadenti e cagando inchieste con accuse roboanti e prove posticce si sono susseguite senza interruzione, senza lasciar tirare il fiato. Con le accuse utilizzate dai procuratori e dai giudici il Dap si adopera a rispettare quell’incasellamento che ha creato per smaltire qualsiasi pericolo di rivolta, per evitare qualsiasi contagio di saperi e volontà tra i sommersi di questo mondo e chi lotta per distruggere i sistemi autoritari e di sfruttamento presenti, qualsiasi complicità tra chi ha voglia e bisogno di libertà, di lottare, di evadere.
La costante ricerca di un magma in cui tuffarsi, dove cercare compagnia e complicità nell’affrontare questi tempi tetri e i problemi quotidiani che ci attanagliano, in cui lanciare degli stimoli per provare a incontrare chi sente la necessità di scuotersi, ha caratterizzato la maggior parte dei percorsi di lotta intrapresi negli anni a Torino. Un cammino tramite cui si è riusciti a cogliere indizi per sondare e capire meglio il mondo, legati dalla solidarietà e nel tentativo, a volte quasi disperato e altre volte spregiudicato, di librarsi in tumulto.

Un compagno o una compagna che potrebbe riconoscersi in questa tensione, forse è proprio là in mezzo che dovrebbe trovarsi: nella bolgia dei detenuti comuni, dove spesso prendono vita episodi di estemporanea sommossa (e gli ultimi anni in Italia mostrano uno scenario tutt’altro che pacificato), dove i detenuti diventano d’un tratto un minaccia reale per la gabbia e i carcerieri che li rinchiudono.

La popolazione detenuta dagli anni ’90 ha visto gonfiare i propri numeri e la propria densità, non tanto per l’aumento dei reati commessi fuori ma per colpa di un insieme di leggi che hanno forgiato e introdotto nuovi reati, aggravato le pene e tolto la possibilità di accedere alle misure alternative a recidivi e insolventi. L’incarcerazione sempre più frequente di chi fuori lotta oppure è identificato come nemico dello Stato fa il paio con la persecuzione dei più poveri. La reclusione differenziata, nelle sue mille sfaccettature, colpisce entrambe anche perché annichilisce la forza che si potrebbe esprimere per migliorare le proprie condizioni di vita dentro.

Nel momento in cui sono elargiti solo miseria e terrore e in tanti hanno necessità di alzare la testa per non soffocare, ciò che cogliamo della posta in gioco è l’urgenza di tenersi stretti gli strumenti per lottare e non retrocedere. Non far mettere sotto paraffina i propri corpi, estinguere gli incendi che a colpi di lanciafiamme mirano a fare terra bruciata attorno a chi si espone di più, non rinunciare a usare gli strumenti sempre più penalizzati e criminalizzati.