Dietro l’angolo pt.6 – Macchine, sensi e realtà

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Imparare a convivere con il virus. Questo il leitmotiv che ci viene ripetuto oramai da settimane.

Il peso specifico di un’epidemia non dipende solo dalle peculiarità del virus, dai suoi tassi di contagiosità e letalità, ma in buona parte dagli effetti che queste provocano all’interno di una determinata organizzazione sociale e da come quest’ultima decide di farvi fronte.

Imparare a convivere con il virus va dunque ben al di là di quell’insieme di pratiche e comportamenti utili, a livello strettamente epidemiologico, per evitare di contagiare ed essere contagiati. Quello che dobbiamo apprendere sembra piuttosto essere, l’abitare in un mondo a misura di pandemia, dove la misura non verrà certo stabilita per salvaguardare la salute collettiva.

Un mondo che prenderà forma piuttosto attorno alla priorità di limitare i danni e i fastidi possibili che emergenze di questo tipo possono arrecare al capitalismo e al funzionamento dello Stato. Tanto rispetto all’epidemia in corso, in una prospettiva più o meno breve a seconda del numero di ondate e della loro durata, che rispetto alle pandemie prossime venture, visto che le cause che hanno originato e favorito lo sviluppo di questa non verranno certo rimosse, e sono da annoverare nell’elenco di quei danni e fastidi da limitare di cui sopra.

Le nostre vite dovranno adattarsi a queste esigenze. Una logica di compatibilità che non nasce certo con il Covid19 ma è da tempo il cuore delle politiche relative alla cosiddetta emergenza climatica.

In cosa concretamente consista questa compatibilità ce lo mostrano ad esempio le ipotesi geoingegneristiche di mitigazione e adattamento all’emergenza climatica. La Gestione della Radiazione Solare (Srm), ad esempio, ossia l’iniezione tramite aerosol di solfati nell’atmosfera per deflettere parte dei raggi solari nello spazio e contrastare così il surriscaldamento globale. Senza entrare nel merito della fattibilità di simili ipotesi e delle imprevedibili e tragiche spirali di conseguenze che potrebbero innescare, qui preme sottolineare come la soluzione per far fronte a un cambiamento climatico sia quella di cambiare in maniera pianificata il clima: non potendo riconfigurare le politiche economiche alla base dei problemi ambientali si sceglie di riconfigurare materialmente il pianeta. Per quanto particolarmente emblematici non è necessario soffermarsi su macro progetti dall’aspetto vagamente fantascientifico, la stessa logica regola il funzionamento di strumenti molto più familiari, come i condizionatori presenti in molte abitazioni in grado di creare ambienti domestici a misura di surriscaldamento globale, senza contrastare ma anzi aggravando le cause del problema.

All’interno di questo quadro la vita, tanto nella sua essenza biologica che rispetto alle gradazioni di benessere materiale che vanno dalla mera sopravvivenza ai gradini più alti della scala sociale, dipenderà sempre più dal livello di artificializzazione che riuscirà a raggiungere.

Già da tempo nella retorica ufficiale c’è sempre meno spazio per l’idea di un miglioramento generale delle condizioni di vita da un punto di vista economico, sociale, culturale e tantomeno ambientale; l’unico progresso cui si accenna, per l’uomo come per il mondo in cui viviamo, e che in qualche modo fagocita tutti gli altri, coincide con il progresso tecnologico tout court.

Per questo per noi senso ha parlare di artificializzazione e pervasività tecnologica rispetto agli scenari presenti e futuri. Seppur il termine artificiale possa essere frainteso se viene opposto intuitivamente al termine naturale – mettendo in scena una contrapposizione difficile da districare riguardo al significato e alla sostanza delle attività umane – quando lo utilizziamo intendiamo un concatenamento di tecniche umane sempre più complesse che svuotano la vita individuale di capacità di autonomia, non potendo i singoli individui controllarne l’intero processo. Concatenamenti che costituiscono una sorta di ipoteca sulla propria libertà poiché legano la propria sopravvivenza a quella di una determinata organizzazione sociale.

Una condizione di dipendenza che rappresenta l’aspetto più critico della crescente pervasività tecnologica. Se dal cielo delle ipotesi geoingegneristiche in cui le entità statali che dovessero adottarle si autoattribuirebbero un ruolo di deus ex machina definitivamente necessario, abbassassimo lo sguardo verso gli aspetti più minuti della nostra vita ci accorgeremmo che una parte considerevole dei momenti in cui entriamo in contatto con il mondo, cioè dell’esperienza che facciamo nel nostro quotidiano, è filtrata attraverso tecnologie digitali, ed è lecito attendersi che di questo passo i nostri sensi saranno sempre meno in grado, da soli, di orientarci e guidarci nel mondo reale. Non è un caso se i sensori attraverso cui alcuni elementi – siano essi suoni, immagini, condizioni dell’aria, temperature etc.- vengono trasformati in dati, “catturati”e immagazzinati in rete, sono spesso paragonati alla vista, all’olfatto, all’udito e al tatto umani dato che costituiscono la base di quel processo di elaborazione delle informazioni e di apprendimento definito come Intelligenza Artificiale.

Un concetto, quello di intelligenza, che ormai da tempo non è più appannaggio esclusivamente degli esseri viventi e l’aggettivo smart è diventato una sorta di prefisso che accompagna, senza che nessuno ci faccia più caso, determinati dispositivi tecnologici e ambienti iperconnessi, come quello domestico o urbano, in grado di svolgere funzioni complesse elaborando attraverso algoritmi una mole consistente di dati. Associare questa facoltà a delle macchine è un tratto caratterizzante di quest’epoca che in passato ha suscitato non poche discussioni e critiche accese, e sarebbe interessate comprendere attraverso quali passaggi questa associazione, un tempo ricca di criticità, si sia normalizzata.

Alcuni suggerimenti utili possono forse venirci da un libro, «Macchine calcolatrici e intelligenza» scritto nel 1950 da Alan Turing che iniziava con la seguente domanda: «Propongo di considerare la questione: le macchine possono pensare?» e prosegue definendo quello che comunemente è conosciuto come il test di Turing, in cui un giudice, attraverso delle domande scritte, deve riuscire a riconoscere tra un certo numero di partecipanti un computer, programmato per cercare di convincerlo di essere umano. Alla metà del secolo scorso Turing ipotizzava che in cinquant’anni i computer sarebbero stati programmati così bene da riuscire ad ingannare 3 volte su 10 un interrogatore medio, dopo cinque minuti di domande. Ipotesi che a quanto sembra si sono rivelate abbastanza fondate e la costante crescita della capacità di elaborazione e apprendimento dei cervelli sintetici ha spinto molti a vedere nei risultati raggiunti dai computer in questo test, il criterio per rispondere affermativamente alla domanda iniziale. Sembra però che non fosse questa l’ottica dell’autore che nel prosieguo del suo testo scrive: «La domanda originale “le macchine possono pensare?” credo sia così priva di significato da non meritare alcuna discussione. Ciò nonostante, credo che alla fine del secolo l’uso delle parole e l’opinione generale delle persone informate sarà cambiata a tal punto che si sarà in grado di parlare di macchine pensanti senza aspettarsi di essere contraddetti».

Detta altrimenti, per Turing la possibilità di associare la facoltà del pensare a delle macchine non risiedeva nell’implementazione della capacità di calcolo delle stesse e nella loro capacità di ingannare un tot di volte il giudice del suo test; ma nel modificarsi del significato di parole come pensare o intelligenza fino a permettere di associarle alle macchine in grado di raggiungere determinate prestazioni.

Se alla capacità di pensare sostituiamo il concetto di vita, come ipotizziamo possa essere utilizzato tra vent’anni o forse meno? E non sono certo problemi di ordine linguistico quelli che ci poniamo. Se è la materialità del mondo e delle attività che caratterizzano le nostre vite a contribuire al significato di alcuni concetti e questi sono quindi una sorta di specchio in grado di aiutarci a capire come è organizzato il mondo in cui vengono utilizzati, le parole racchiudono altresì idee e tensioni, in grado di influenzare profondamente l’agire e modificare quindi la realtà. Idee che hanno una loro forza materiale.

Difficile valutare lo spessore e di quale materia sia fatto il filo che intreccia tra loro i concetti di vita, umanità e ambiente.

Tralasciamo – perché non meritano discussione, per dirla con Turing – le trame tessute dalle ipotesi accelerazioniste o transumaniste che individuano nell’artificializzazione dell’ambiente e della stessa vita biologica delle prospettive di liberazione. Le misure adottate per far fronte all’epidemia in corso promettono di assottigliare ulteriormente questo filo, aumentare ancor più il distacco fisico dalla realtà e accrescere quindi l’inadeguatezza delle nostre percezioni. L’isolamento sociale particolarmente rigido, vissuto nelle settimane di lockdown, minaccia a piccole o grandi dosi di durare nel tempo e anche quando questa pandemia potrà dirsi conclusa da un punto di vista epidemiologico, le nostre relazioni con gli altri esseri umani e con il mondo – i fondamenti della nostra esperienza e del nostro tentare di dar significato e intellegibilità a ciò che ci circonda – rischiano fortemente di non essere più quelle, tutt’altro che ottimali, dell’epoca pre-Covid. Perché nel frattempo quella parte di esperienza reale venuta meno sarà stata sostituita da un’esperienza mediata in misura e intensità crescente da dispositivi e infrastrutture tecnologiche digitali, in grado di offrire un ventaglio ampissimo di possibilità: dall’ottimizzare le nostre scelte quotidiane a livello nutritivo e ginnico, all’organizzare i nostri spostamenti nel modo più veloce e al contempo sicuro; dal permetterci di consumare una gamma di merci sempre più ampia attraverso un app, all’aiutarci a scegliere quali persone incontrare all’interno di safe zone relazionali; fino alla sostituzione tout court del mondo esterno attraverso il ricorso alla realtà virtuale o a quella aumentata e alla creazione di nuovi ordini di bisogni e desideri. Arrivando potenzialmente a colonizzare ogni aspetto della quotidianità.

Una colonizzazione in atto già da tempo, a cui quest’emergenza permetterà di fare notevoli salti in avanti, tanto da un punto di vista giuridico che infrastrutturale, forzando in breve tempo delle strettoie che con ogni probabilità avrebbero richiesto tempi più lunghi, – pensiamo soltanto alla rete 5G – specie in un paese come l’Italia che sotto questo profilo si trova certamente indietro rispetto ad altri. Non solo perché continuerà ad aleggiare, con una forza che non siamo in grado di prevedere, la minaccia di altre pandemie, ma perché nel frattempo la pervasività di questi dispositivi digitali sarà aumentata e una certa organizzazione della vita si sarà sedimentata.

Proviamo ora a soffermarci brevemente sulla sfera lavorativa. Una sfera che verrà profondamente riorganizzata dalla crescente automazione, in grado non solo di sostituire braccia e cervelli umani in un ventaglio molto ampio di attività ma anche di stravolgere i compiti e i comportamenti di chi non sarà espulso dall’ambito lavorativo. In attesa di vedere come e per quanti lavoratori lo smartworking diffusosi nelle ultime settimane diventerà permanente e quali conseguenze questo comporterà, un buon esempio di stravolgimento delle mansioni lavorative può essere quello del cosiddetto stoccaggio caotico con cui da tempo sono organizzati, da cervelli sintetici, i magazzini di Amazon e di altre aziende: i prodotti sono collocati sui vari scaffali non in base alla tipologia di merce, come farebbero probabilmente dei magazzinieri per memorizzarne meglio la posizione, ma in base al principio di ottimizzare i tempi – mettendo ad esempio vicini quei prodotti che più frequentemente sono spediti assieme – e gli spazi. Un ordine che non è assolutamente a portata d’uomo e che nel rendere i lavoratori del tutto dipendenti da elaborazioni algoritmiche, ne riduce le competenze e accresce la precarietà; dinamiche simili stanno iniziando a regolare, o promettono di farlo a breve, anche attività meno manuali, come quelle svolte negli uffici pubblici e nelle banche o negli studi legali e medici.

Esempi significativi del livello di condizionamento che l’automazione può arrivare ad imporre, a livello lavorativo, possiamo poi trarli dal controllo sulle cassiere adottato nella catena di distribuzione statunitense Target, dove un sistema automatico classifica come verde, gialla o rossa ogni operazione alle casse in base alla velocità e precisione. Una scala cromatica a cui sono legati stipendio e mantenimento del posto. Ancora più invasiva è la valutazione della performance emotiva effettuata nell’azienda giapponese Keikyu che misura la quantità e qualità dei sorrisi, dei propri dipendenti a contatto con il pubblico, attraverso software che controllano e interpretano i loro movimenti oculari e la curva delle loro labbra.

Una certa organizzazione della vita è in grado di sedimentarsi grazie alla raccolta e gestione di enormi mole di dati, di primaria importanza a livello economico e politico, e che permettono poi di implementare ulteriormente le capacità d’apprendimento di questi cervelli sintetici, che saranno così in grado di aumentare il ventaglio delle proprie funzioni e svolgere compiti sempre più complessi, in una dinamica capace quindi di autoalimentarsi.

Emblematica la discussione attorno alle nuove app di tracciamento in cui l’accento delle dichiarazioni governative è stato intelligentemente messo sulla loro non obbligatorietà. Una questione alquanto oziosa. Al momento, per i numerosi problemi tecnici che queste app di tracciamento sembrano avere, a partire dal fatto che non sono ancora pronte, l’introduzione del contact tracing sembra per lo più utile a fornire alle autorità una nuova figura di untore – chi sceglie di non scaricarle – cui attribuire la responsabilità di eventuali nuovi focolai. Ma una volta che applicazioni di questo tipo entreranno a far parte della quotidianità, e si saranno risolti i problemi di ordine tecnico, l’attuale non obbligatorietà risulterebbe alquanto aleatoria. Non solo perché potrebbe essere velocemente sacrificata, a livello legislativo, sull’altare della tutela della salute pubblica, ma soprattutto perché sarebbe facile renderle obbligatorie di fatto impedendo o limitando l’accesso a determinati luoghi e servizi a chi ne fosse sprovvisto. Come già accade in altri paesi più hi-tech e come alcuni, del resto, ipotizzavano sarebbe accaduto anche qui, quando a ridosso dell’inizio della Fase 2 si vociferava che la mobilità individuale sarebbe stata subordinata all’utilizzo di queste app. Discorso simile si potrebbe fare per una delle ultime new entry nel campo delle tecnologie “anti-Covid”: i braccialetti elettronici in grado per ora di di regolare “soltanto” il distanziamento sociale e che a quanto sembra hanno buone possibilità di entrare a far parte della nostra quotidianità. Ma l’esempio più lampante di obbligatorietà convergente è quello che quasi tutti portiamo già in tasca: lo smartphone. Per come sono organizzati i più svariati ambiti della vita, farne a meno risulta in molti casi estremamente difficile e anche quando è possibile richiede un notevole dispendio di tempo ed energie per elaborare strategie alternative.

Quella che stiamo tentando di tratteggiare è una tendenza che non si svilupperà certo in maniera piana e omogenea. All’incerta velocità con cui si realizzeranno le infrastrutture necessarie a rendere smart le città o i territori in cui viviamo si aggiungeranno fattori sociali e anagrafici a differenziare la diffusione di dispositivi digitali. E ci saranno poi ostacoli soggettivi, di coloro che rifiuteranno di delegare una parte più o meno consistente delle attività e scelte della propria vita a strumenti collegati in rete. Tentativi, individuali come collettivi, di sbarrare la strada a questa colonizzazione o perlomeno di utilizzare criticamente questi dispositivi indubbiamente importanti, sotto molteplici punti di vista, ma che da soli non hanno grandi possibilità di contrastare questi processi. Il rischio è anzi di convincersi e corroborare l’idea, ingenua e pericolosa, che la tecnologia si riduca a un insieme di strumenti che si possono decidere o meno di utilizzare, quando in realtà appare oggi come una fitta ragnatela che intrappola il mondo materiale, modificando le capacità percettive degli esseri umani, organizzando e regolando fette sempre più crescenti dell’approvvigionamento, della distribuzione e della produzione delle risorse su cui si basa l’esistenza umana. Le tecnologie digitali sono quindi un sistema di relazioni che contribuisce a dar forma alla realtà e alle nostre vite. Pensare di poterne semplicemente vivere al di fuori è come pensare di poter vivere al di fuori, senza esserne quindi profondamente influenzati, dal capitalismo.

Scrivevamo che ci sembra difficile valutare come si stiano intrecciando i concetti di vita, ambiente e umanità. Tra chi aspira a vivere in un mondo di liberi e uguali da un lato si corre il rischio di sottovalutare il problema, minimizzandolo o subordinandolo a priorità di altro ordine – sociale, economico, ambientale etc. – cui se ne affida automaticamente la risoluzione, o si rimanda piuttosto qualsiasi riflessione critica o iniziativa di contrasto a un indefinito domani, e se ne perdono in ogni caso di vista le specificità; dall’altro si rischia di assolutizzarlo, come se l’artificializzazione della vita non si intrecciasse e contribuisse ad approfondire le disuguaglianze sociali, come se questo processo avvenisse in un ambiente vuoto in cui il principale, se non l’unico, contrasto esistente fosse quello tra l’essere umano e quello macchinico. Una visione in cui è facile lasciarsi tramortire e catapultare in labirinti distopici in cui iniziative o lotte che nascono attorno ad altre problematiche risultano inutili e non possono che condurre a vie senza uscita.

A complicare ulteriormente il quadro il fatto che una necessaria prospettiva luddista risulta sempre più difficile, da molti punti di vista, senza un adeguato bagaglio di conoscenze tecnologiche.

Capire come difendere e ridare spazio a una certa idea e materialità, del mondo come dell’uomo, ci sembra quindi una questione estremamente complessa. In cui il necessario livello di attenzione, su un piano tanto riflessivo quanto pratico, al problema specifico dell’artificializzazione non può essere separato da quegli sforzi volti ad aprire attraverso altre lotte e conflitti delle brecce nell’organizzazione sociale della vita. Questione complessa ma centrale in una prospettiva rivoluzionaria che voglia ancora confrontarsi con la parola libertà in tutto il suo spettro di significati. Perché vivere in un mondo di liberi e uguali richiede che esistano ancora un certo tipo di mondo e di esseri umani.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile