DIETRO L’ANGOLO PT.9 – MOVIMENTO DISORDINATO
QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO. La diffusione globale del Covid-19 ha salutato l’inizio degli anni ’20 del Duemila.
Dalla Cina, ma si può mettere in discussione l’epicentro unico senza che il risultato cambi, la portata del virus è diventata rapidamente omogenea alle traiettorie mercantili e sociali che sono di fatto le moderne condizioni di vita della stragrande maggioranza di persone sulla Terra.
Scrivevamo all’inizio di queste riflessioni che la vita di una buona parte degli uomini e delle donne si sostanzia da tempo nel tentar di rimanere aggrappati ai pioli di una scala, senza più nemmeno la speranza di poterla risalire. Un’impresa particolarmente difficoltosa che rischia di diventare proibitiva a causa di questa pandemia che ha reso questa scala ancor più carica e traballante, togliendole al contempo punti d’appoggio. Se è lecito attendersi che, per evitare di scendere sempre più in basso o caderne, aumenteranno numero e ferocia di calci e gomitate contro i propri compagni di sventura, tenderanno altresì a moltiplicarsi quelle strategie di resistenza, individuali e collettive, volte invece a prendersela con chi ne è responsabile.
La retorica sulla colpevolizzazione dei poveri, secondo la quale determinati problemi sociali non sono dovuti a cause strutturali ma sono piuttosto da ricercare nella biografia di chi li subisce, farà sicuramente più fatica ad attecchire in un momento come questo in cui le ragioni delle difficoltà di arrivare a fine mese sono chiare quanto non mai.
Abbiamo infatti scritto e sostenuto che questa pandemia ha avuto le caratteristiche di un’esperienza di massa, contingenza che nella storia recente, ha come precedente più prossimo l’ultima guerra mondiale.
Chiaramente non tutti ne avranno avuto la stessa percezione, e non tutti ne pagheranno le conseguenze in egual misura, ma il carattere sismico di questa pandemia, in grado di peggiorare contemporaneamente le condizioni di vita di tanti, potrebbe favorire lo svilupparsi di una rinnovata capacità di leggere le iniquità che potremmo definire di classe.
Una situazione simile, seppur di portata ben minore, ci sembra essere quella seguita alla crisi del 2008 in cui le responsabilità delle banche nell’impoverimento generale erano talmente evidenti e note che risultavano estremamente comprensibili le ragioni di chi ad esempio lottava contro gli sfratti o occupava delle case, verso cui c’era una certa empatia anche in molti di coloro che non si trovavano con l’acqua alla gola. Una finestra che non è rimasta aperta troppo a lungo e, alla luce del fatto che il conflitto sociale, almeno a queste latitudini, non è riuscito a produrre significative rotture della normalità, il sentimento di indifferenza e la guerra tra poveri, potenziati anche dal vecchio caro razzismo, hanno ripreso prepotentemente terreno.
Ci sembra quindi tutt’altro che remota la possibilità che questa pandemia crei un qualche cortocircuito alla retorica che vuole i poveri responsabili della loro sorte e a quell’atomizzazione sociale così feroce vissuta negli ultimi anni. Un cortocircuito la cui durata e profondità sarà inevitabilmente legata non solo allo spazio che determinate lotte e il conflitto sociale in generale riusciranno ad allargare, ma anche a quali dinamiche di esclusione riusciranno a contrastare o invertire e a quanto riusciranno a far retrocedere quella normalità statale di cui abbiamo provato nel corso di questo testo a delineare degli aspetti.
Se il peso e l’importanza di tutta quella sfera di problemi legati ai bisogni più basilari è destinata ad aumentare e con questo i conflitti e la tensione sociale che ruoteranno attorno ad essi, la forma che queste lotte prenderanno tanto nel breve quanto in un periodo più ampio risulteranno con ogni probabilità almeno in parte diverse da quelle che abbiamo avuto modo di conoscere finora.
Un impoverimento generale e rapido, le cui conseguenze devono ancora iniziare a manifestarsi, non ha precedenti recenti in questa porzione di mondo e le dinamiche in Paesi più o meno lontani, piombati altrettanto velocemente in una recessione economica di tali proporzioni, potrebbe fornire più di una suggestione riguardo ad alcuni degli scenari che potrebbero delinearsi. Ben difficilmente conflitti di tipo rivendicativo o vertenziale attorno a questioni come quella lavorativa, abitativa o sanitaria si limiteranno a muoversi lungo quei binari che solitamente conducono a trattative di tipo sindacale, pur particolarmente accese. È facile prevedere che possano invece dare il la o intrecciarsi a esplosioni di rabbia e malcontento diffusi se non a vere e proprie sommosse popolari.
Di questi tempi più che mai l’importanza di questi conflitti specifici attorno alla sfera dei bisogni non sarà allora soltanto legata a ciò che queste singole lotte saranno in grado di produrre nel tentare di ‘risolvere’ i problemi che le hanno causate, ma anche al loro carattere in qualche modo propedeutico a sommovimenti più ampi, eterogenei e anche contraddittori.
La contraddittorietà non è solo quella che potrebbe manifestarsi in un terreno di contestazione, o anche di lotta ampia, in cui alcune propaggini sono strumentalizzate da partitucoli, associazioni o affini. Il recupero di istanze sociali nell’alveo di riforme politiche che in qualche modo le pacifichino è un nodo storico a cui ahinoi si arriva quasi sempre e su cui le teorie dei sovversivi da tempo immemore si interrogano. La contraddittorietà in tempi di crisi acuta all’interno di un campo sociale di complessità caotica come quella contemporanea, emerge spesso in quella che si è definita guerra civile. Una nozione identificabile non solo nei grandi scontri intranazionali degli ultimi secoli, ma il cui germe serpeggia sottotraccia e viene puntualmente rinvigorito dalle politiche di impoverimento e infinita differenziazione. Nelle periferie la guerra per la sopravvivenza prende spesso forme di conflitto acuto, tracciate sotto etichette diverse che non restituiscono l’essenza del problema: dai benpensanti di sinistra certi conflitti vengono definiti semplicemente come la conseguenza del razzismo innato a una certa componente autoctona e ignorante; da una certa popolazione radicata nelle città e impoverita la delinquenza di strada viene percepita come il maggior problema da affrontare quotidianamente; per alcuni individui in forte deprivazione l’arrangiarsi a danno dei propri vicini di casa non è che l’unica maniera per campare.
Ma queste non sono solo percezioni da correggere con una sana educazione alla realtà sociale, come si usa dire ora dei bias frutto di una distorsione cognitiva, ma la materia viva di cui è fatta l’esistenza delle persone e che prende spesso il nome imposto e propagato dai media e dall’organizzazione della società. I fatti e le divisioni sono dunque reali e quasi sempre gravosi, l’intelligibilità è invece falsata dal discorso pubblico. Come fare a scardinare le frizioni tra parti di popolazione in forte difficoltà e farne emergere conflitti che non siano orizzontali ma contro padroni e governanti? Questo è da tempo un interrogativo pressante a cui ora più che mai è necessario guardare con attenzione perché l’acuirsi di quel germe di cui parlavamo non è una previsione pessimistica del futuro delle città, ma un fatto che si sta sviluppando esponenzialmente.
Ecco, a nostro parere, l’importanza dei momenti di lotta specifica: la loro esistenza e crescita potrebbe essere uno dei pochi antidoti che abbiamo a questa guerra anomica e strisciante.
Le relazioni che in questi conflitti specifici riusciranno a crearsi saranno un pezzo importante di questi percorsi: la solidarietà che nasce nel lottare fianco a fianco, accomunati dagli stessi problemi, è un obiettivo importante almeno quanto il far fronte ai problemi che generano quei conflitti.
Sappiamo bene come la solidarietà non sia un sentimento aprioristico, qualcosa di religioso o culturale, ma come scaturisca dal vivere un esperienza di lotta comune, la comunanza del conflitto.
Inedite tanto quanto le forme saranno le problematiche con cui i conflitti si troveranno a dover fare i conti e da cui nasceranno.
Si pensi in primis alla possibilità di spostarsi senza vincoli e restrizioni. Al di là degli aspetti più strettamente economici relativi all’aumento dei prezzi e alla riduzione selettiva dell’accesso al trasporto pubblico, aspetti che assumeranno una sempre maggior importanza specie nelle grandi città – il lusso di poter prendere la metropolitana di cui parlavano ad esempio i rivoltosi cileni –, qui ci preme concentrarci brevemente sul coprifuoco con cui ci siamo improvvisamente trovati a convivere. Un fatto del tutto nuovo che non poteva che trovare tutti impreparati; un’impreparazione inevitabile che riguarda tanto la sfera della vita in senso stretto, con le sue abitudini e relazioni, come quella della possibilità di lottare, esprimere la propria rabbia e insofferenza senza introiettare soltanto frustrazione e senso di impotenza.
In una città parzialmente o totalmente deserta, organizzarsi con e conoscere altri possibili compagni di lotta presenta indubbiamente difficoltà inedite, così come prendere l’iniziativa in pochi, pur avendo già conoscenze e affinità. Ragionare su un simile coprifuoco appare ancor più complesso anche a causa della legittimità che in parte ha avuto per le innegabili ragioni sanitarie che ne hanno causato l’imposizione. Far tesoro dell’esperienza appena conclusa, con l’idea di capire cosa fare, quali accorgimenti prendere, quali discorsi elaborare e come eventualmente diffonderli non può che partire dal riconoscimento di tali ragioni sanitarie.
Il rischio altrimenti è di suffragare una lettura di questo fenomeno alquanto distorta. Da questo punto di vista gli strali sul popolo-gregge quanto mai ubbidiente e servile nell’accettare tali misure risultano a dir poco semplicistiche, dato che restare dentro casa e limitare spostamenti e assembramenti non era una scelta figlia soltanto e principalmente della paura o del non voler rischiare conseguenze penali o amministrative. Ma questo è un discorso da approfondire altrove.
Si deve far tesoro di quest’esperienza a partire dal fatto che non è dato sapere che natura potranno avere eventuali futuri lockdown per ragioni di ordine sanitario, né è dato sapere se la popolazione reagirà in toto allo stesso modo in presenza di nuovi focolai: è innegabile che a causa di questa sorta di domiciliari di massa si sia accumulato un senso d’insofferenza generale. Ma a monte, probabilmente la forza delle ragioni sanitarie ci sembra essere inversamente proporzionale alla gravità delle altre problematiche da cui si è assillati. Un esempio significativo, che griderà ancora a lungo vendetta, ce lo hanno fornito i familiari dei detenuti di molte carceri italiane, i quali sono stati non a caso tra i primi a esporsi in prima persona in momenti in cui il problema epidemiologico era più acuto e le misure di lockdown più rigide; altrettanto significative, anche se mosse naturalmente da altri assilli, le pressioni contro misure di distanziamento sociale e affini provenienti dai settori del commercio al dettaglio.
Ma la misura di lockdown, magari con una diversa gradazione a livello spaziale, potrà ripresentarsi nei prossimi tempi pur a pandemia finita per ragioni esclusivamente di ordine pubblico, vista l’aria che minaccia di tirare tra le strade dei quartieri di tante città. Una differenza che modificherebbe in maniera sostanziale il quadro nelle possibili resistenze dal basso, che non dovrebbero più fare i conti con preoccupazioni di ordine sanitario ma si troverebbero ad avere a che fare con una gestione dall’alto probabilmente ben diversa da quella attuale. Davanti a un siffatto coprifuoco a uscir di casa o assembrarsi non si rischierebbe infatti solo una multa o una denuncia per l’art.650 c.p.
Torniamo alle accennate proteste di ambulanti, del commercio al dettaglio e dei vari rami della ristorazione. Tra chi non riaprirà e chi rialzerà la serranda per breve tempo per poi seguire l’esempio dei primi, saranno con ogni probabilità in tanti a ritrovarsi in breve tempo senza una fonte di reddito e senza grandi risparmi per tirare avanti. Se molti non versavano già da tempo in floride condizioni, ben difficilmente avrebbero immaginato di dover chiudere bottega così all’improvviso e in così gran numero. I miseri fondi stanziati e promessi dallo Stato italiano funzioneranno da frangiflutti fino ad un certo punto.
Difficile prevedere quali forme assumerà l’inevitabile tensione prodotta da questo improvviso, generale e, almeno per queste caratteristiche, inaspettato impoverimento. Se hanno certamente le loro valide ragioni le previsioni più pessimiste che prevedono la crescita soltanto di un blocco reazionario, non meno sensate appaiono quei paralleli con il recente movimento francese dei Gilets Jaunes non tanto da un lato sociologico, piuttosto per il senso di ingiustizia subita.
Pur coscienti che il conflitto di classe serpeggi in ogni società secondo modalità minute, continue, irregolari e individuali, se dovessimo ricapitolare le sollevazioni più imprevedibili che hanno movimentato il corso del tempo prima del Coronavirus, potremmo definire il 2019 come l’anno dei Gilet Jaunes, dei disordini in Ecuador, in Catalogna, in Cile, a Hong Kong, per citare solo quelle con una copertura mediatica imponente.
Rivolte la cui dinamica, pur alimentata da cause diverse, persone diverse, diverse ‘parole d’ordine’, diversi mezzi e diversi fini, ci risulta combaciare in alcuni punti.
Il primo aspetto, pur conosciuto dalla letteratura rivoluzionaria ma sempre troppo sottovalutato, potrebbe essere definito come la banalità dell’innesco delle sollevazioni, l’insignificanza delle cause scatenanti di molte rivolte, se non insurrezioni e perfino rivoluzioni o guerre. Difficilmente la rabbia esplode a livello collettivo per ragioni ideali – o peggio, ideologiche – rispetto a quelle più minute e insignificanti.
Un altro aspetto, collegato al precedente, è l’immediato e contagioso sentimento di legittimità del protestare e lottare contro misure imposte, percepite come ingiuste. Un sentimento che qualcuno in passato ha definito economia morale in riferimento a dei conflitti contro l’innalzamento dei prezzi del pane nel XVIII sec. in Inghilterra, moti, seconda questa lettura, alimentati non solo da un fattore strettamente economico ma anche da quanto tale peggioramento venisse vissuto e interpretato come particolarmente ingiusto rispetto alle condizioni precedenti.
Un simile sentimento, di questi tempi di misure e contromisure, licenziamenti e cassa integrazione forzosi, potrebbe certo accomunare e far da collante ai tanti uomini e donne messi all’angolo dalla pandemia.
Prevedere fin da ora che la retorica che accompagnerà eventuali mobilitazioni di questo tipo con tutto il suo portato populista potrà contenere numerose ambiguità e criticità è fin troppo facile; val la pena anticipare che sarebbe assai miope però la critica di chi si limitasse a tentar di capire cosa bolle in pentola guardando solo alle rivendicazioni scritte o verbali di simili situazioni.
Ben più difficile immaginare che piega potrebbero prendere questi conflitti sulla spinta di questo pezzo di mondo, soprattutto se riuscisse ad attrarre quel malcontento e quella rabbia generati da questa emergenza che faranno fatica a trovare altre occasioni per esprimersi.
Una suggestione di una qualche utilità potrebbe forse venire dall’esperienza “nostrana” che maggiormente sembra alludere al quadro appena tratteggiato, quella dei Forconi del dicembre 2013, in grado di sorprendere un po’ tutti e, a Torino, di bloccare all’improvviso buona parte della città richiamando una parte significativa di chi viveva nei suoi quartieri.
La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe
pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da
tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di
rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle
donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar
di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere
giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui
continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di
uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena
del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo
di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a
settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni
specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che
partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne
fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e
magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del
resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni
sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online
non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.
Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.
Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.