Il grande assente
Sta giungendo ormai a conclusione il processo contro la lotta agli sfratti. Ricordate? Quello per cui il 3 giugno 2014 il Tribunale di Torino dispose 29 misure cautelari, tra cui 11 arresti in carcere e 6 ai domiciliari. Ai tempi abbiamo parlato a più riprese di questa operazione giudiziaria che è stata occasione anche di qualche riflessione un po’ più approfondita del solito sulla resistenza contro gli sfratti. Ultimamente non vi abbiamo dedicato molto spazio, concentrati come siamo stati a cercar di creare più grattacapi possibili a chi governa questa città, e a pararci dai numerosi colpi che nel frattempo ci sono continuati a piovere addosso dal Palazzo di corso Vittorio Emanuele II. La Giustizia ha comunque seguito il suo corso. Molto celermente tra l’altro, se si pensa che in poco più di un anno sta arrivando alle battute finali un processo con una trentina di imputati e altrettanti capi di imputazione. Nella prossima udienza prevista per il 6 ottobre verranno ascoltati gli ultimi testimoni, e parleranno quindi i pubblici ministeri e gli avvocati di parte civile con le loro richieste di condanna e di risarcimento. Il 10 ottobre sarà poi la volta degli avvocati della difesa e la palla passerà poi ai giudici per la sentenza.
In aula questa mattina gli imputati e i solidali presenti hanno potuto salutare e abbracciare Camille, ancora agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni dal 3 maggio scorso. Durante l’udienza è stata inoltre letta una dichiarazione sottoscritta da gran parte degli imputati che hanno voluto dir la loro su questo processo. Ve la proponiamo, e torneremo a parlare di questo processo il 6 ottobre, quando sapremo a quanti anni di carcere ammonterà la richiesta della Procura.
«Ormai tre anni fa la Procura, ordinando l’arresto di molti di noi, individuava centoundici tra compagni, solidali e persone sotto sfratto come responsabili di una lotta che ha ostacolato centinaia di sfratti nelle strade di alcuni quartieri di Torino. Oggi sotto processo in quest’aula per quella lotta ci sono una manciata di anarchici. E va bene così: meno sono le persone a dover avere a che fare con il pallottoliere penale dei tribunali, meglio è.
Tra compagni di Torino e altre città, solidali, uomini e donne sotto sfratto con i loro parenti e amici sono in ogni caso molte di più anche delle centoundici un tempo individuate le persone che hanno partecipato attivamente a quella lotta nel periodo esaminato in quest’aula. Un pezzo di questa città certamente esiguo, ma comunque abbastanza consistente da mettere in crisi il normale andamento della macchina degli sfratti cittadina.
La maggior parte delle udienze di questo processo è stata dedicata ai racconti di chi per lavoro fa parte dei vari ingranaggi che consentono alla macchina degli sfratti di muoversi tra le strade della città e lasciare fuori dal portone chi ha la sventura di incapparvi: ufficiali giudiziari, agenti di polizia, proprietari di case e avvocati di quest’ultimi. Poi hanno preso parola alcuni di noi, che siamo una piccola parte di quel pezzo di città che si è messo di traverso, chiudendo quei portoni e, alle volte, quelle strade.
Abbiamo già detto che non ci lamentiamo certo di essere gli unici imputati in questo processo, ma ci preme sottolineare come non sia stata casuale la scelta della Questura e della Procura di portare proprio noi in questa aula. Lasciando sullo sfondo chi ha deciso di resistere al proprio sfratto è molto più facile provare a presentare questa lotta come un affare privato tra ufficiali giudiziari, polizia e anarchici. Una scelta non casuale, dicevamo, figlia di un modo di leggere la realtà tanto semplicistico quanto rassicurante per chi ha tutto da perdere dall’acuirsi del conflitto sociale. I protagonisti delle lotte, e in special modo dei loro episodi più accesi, sarebbero secondo Questura e Procura quegli individui sempre e comunque disposti a battersi contro ciò che fa chi ci governa. Lottare sarebbe insomma un fatto per pochi, inguaribili insoddisfatti della società in cui vivono.
Le lotte sociali invece hanno cause sociali e sono connaturate all’ingiustizia che contraddistingue questa società: allo sfruttamento e alla vita di merda, ci sia consentito il termine, che la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne sono costretti a fare, a beneficio di pochi. E la lotta contro gli sfratti al centro di questo processo ci ha dato una piccola dimostrazione di come la disponibilità a lottare e il coraggio siano elementi tutt’altro che innati.
Picchetto dopo picchetto, rinvio dopo rinvio abbiamo visto la lotta crescere. In ampiezza, perché sempre più uomini e donne, vedendo che gli sfratti erano un problema comune a tanti, e resistervi era possibile, hanno smesso di viverli con vergogna e hanno superato le proprie paure. Ma la lotta è cresciuta anche in intensità, perché col tempo e l’esperienza accumulata sono cresciute anche la determinazione e la consapevolezza di ciò che si poteva ottenere lottando. Un aspetto emerso più volte nel corso di questo processo, ma in maniera estremamente distorta.
Siamo stati ad esempio accusati di aver sobillato, quando non di aver costretto, gli sfrattandi a richiedere rinvii più lunghi. Non che sobillare ci sembri cosa negativa, tutt’altro. Ma a spingere gli sfrattandi a chiedere e ottenere rinvii più lunghi, più che dei sobillatori anarchici, è stata la forza raggiunta dalla lotta. Man mano che al crescere di questa diminuiva il rischio di essere buttati fuori di casa il principale oggetto del contendere tra inquilino sotto sfratto e proprietà era la lunghezza del rinvio. Ricordiamo decine di situazioni in cui uomini e donne non si accontentavano più di un semplice rinvio, ma facevano la voce grossa con gli ufficiali giudiziari e proprietari di case per allontanare di due o tre mesi, invece che di due o tre settimane, il rischio di ritrovarsi per strada. Un fatto senz’altro positivo e a ben vedere niente affatto straordinario, anzi assolutamente normale: ci sarebbe piuttosto da stupirsi del contrario!
Ma in fondo ognuno ha la sua idea di normalità, in base anche a come si auspica dovrebbero andare le cose. E particolarmente significative sono state in questo senso le parole di un avvocato di parte civile che in quest’aula ha definito gli sfratti un’attività assolutamente normale.
Parole dietro cui si intravede l’idea di un mondo in cui un numero esiguo di uomini deve poter trarre profitto dallo sfruttamento dei tanti senza incontrare alcuna resistenza. Una normalità che è di fatto la violenza di classe a senso unico di chi sta in alto nei confronti dei tanti che stanno in basso, perpetrata anche a colpi di sfratti, di pignoramenti da parte delle banche, di minacce da parte dei proprietari e degli ufficiali giudiziari.
Se oggi però si svolge questo processo è perché a un certo punto questa normalità ha cominciato a traballare. Per uscire dal pantano in cui la lotta l’aveva condotta un po’ tutta la macchina degli sfratti ha dovuto imboccare nuove strade. Le varie autorità cittadine si sono sedute attorno a un tavolo affidando il compito di stilare l’agenda degli sfratti alla Questura e non più agli ufficiali giudiziari. Questa, secondo una logica militare, ha pensato bene di costringere il nemico a dividere le forze così da poter più facilmente intervenire. Una scelta che non ha prodotto gli effetti sperati ma si è anzi rivelata un boomerang, perché nei conflitti sociali, alle volte, dividere le forze può favorire il loro moltiplicarsi. Constatato il fallimento di questa strategia, la Questura ha quindi deciso di adottare un particolare stratagemma, secondo la definizione utilizzata dal dirigente degli Ufficiali Giudiziari. Stravolgere il normale andamento di uno sfratto, affidando la sua programmazione a un giudice che ne stabilisce la data e la comunica solo a Questura, proprietà e ufficiale giudiziario. Chi è sotto sfratto viene invece lasciato all’oscuro di tutto, non può così provare a organizzarsi per resistere e vive costantemente nel timore di ritrovarsi da un momento all’altro senza un tetto sopra la testa.
A turbare la soffocante normalità di cui parlava l’avvocato delle parti civili sono stati centinaia di uomini e donne che vivono in questa città. Noi, imputati in questo processo, siamo orgogliosi di essere stati tra loro e aver dato il nostro contributo. E di continuare a darlo. Perché le resistenze contro gli sfratti stanno continuando in questa città e continueranno finché ci saranno persone che rischiano di essere sbattute fuori di casa. Così come continueranno i conflitti sociali fino a che non verranno eliminate le cause che li generano.
Con buona pace di chi li istruisce, questo genere di processi non sono in grado di debellare la conflittualità sociale. Non fosse altro perché, come abbiamo cercato di mostrare, il grande assente di questo processo è proprio la lotta contro gli sfratti.
Ed è certamente meglio così.»