La storia che non c’è
RACCONTARLA
Al Campus Einaudi durante la presentazione di una ricerca sociologica sulla rigenerazione urbana uno studente spiega che per lanciare un’attività è necessario aver qualche storia da raccontare: sul posto occupato, sulla tradizione riscoperta. Nel caso non ci fosse… facile, basta inventarla.
“Raccontare una storia per cambiare la vostra Azienda”, così recita la presentazione del corso di Holden Factory dell’omonima scuola di story telling. Raccontarla è un campo di interessi.
L’atmosfera è densa di informazioni che sembrano offrirci la possibilità di conoscere tutto. Le storie che ci raccontano più sono ripetute, dai giornali alla piccola associazione di quartiere, più diventano convincenti e si sostituiscono alla propria esperienza diretta del mondo. Ci si allontana drasticamente dai propri sensi, dalla capacità di trovare i propri strumenti per conoscere. Che succede dunque tra queste vie? É l’avvento del decoro o la cacciata dei più poveri e di chi propone di lottare e non chinare più la testa davanti alle ingiustizie? O meglio qual è la storia meglio propagandata?
“Preso a botte con una mazza da baseball”, così esordiscono le testate locali, con tanto di suggestive foto dei bastoni incriminati, nel presentare la violenza ingiustificata degli anarchici contro un ragazzo straniero durante la consueta cena benefit all’Asilo Occupato. A tre mesi da quella sera di febbraio la storia dei poliziotti impacchettata dalla Procura ha portato sei divieti di dimora per altrettanti compagni. La storia propagandata racconta dell’odio scellerato degli anarchici, presenta gli spacciatori come esseri bestiali o chi non ha il biglietto e aggredisce i controllori come persone senza raziocinio. Mentre la violenza dei più poveri e dei maleducati si esprime a furia di risse in strada e sciabole sguainate la storia della missione della controparte sta diventando sempre più epica: una guerra per rimediare al caos, per fare di questo ritaglio di città una terra ordinata ed educata.
Raccontarla, fino al capo più estremo. La storia degli sbirri ha determinato la verità, mettendo in moto la violenza delle leggi.
MENARLA
Una famiglia egiziana da parecchi anni cerca di riottenere indietro il figlio tenuto in scacco da assistenti sociali e giudici per i minori. Il bambino giocava in cortile finché non è scomparso, i parenti si sono rivolti ai carabinieri per ritrovarlo. Una volta ritrovato è stata messa in discussione la loro capacità genitoriale e di tutela del bambino.
Questo esempio è portato alla luce non per difendere tout court la bontà dei metodi educativi genitoriali, ma l’invasività, la brutalità dello Stato. La violenza esiste in maniera costante e regolare, normalizzata dalle leggi, perpetrata quotidianamente da chi detiene il potere, delegata fisicamente alla polizia. La violenza non è dunque un episodio eccezionale.
Molto spesso il carico di violenza subita ci entra nel DNA e rimane intrappolato nei nostri corpi e nei linguaggi. Si ripiega e s’incunea nel microcosmo quotidiano. Così si scatenano liti sull’autobus, in mezzo al traffico, così vengono bruciati i barboni, picchiate le donne in casa, così si risolve qualche litigio di qualche ubriaco. Molto spesso interviene la polizia, chiamata da chi ha subito le botte oppure spinta dal bisogno di confermare il proprio ruolo. Ridefinire il monopolio dell’utilizzo della violenza, ricondurre la gestione dei conflitti nelle mani dello Stato, ricodificare il conflitto in termini di reati, di innocenti e colpevoli.
Eliminare la violenza fa parte dell’ideologia di chi detiene il potere e il suo monopolio, oppure una pia illusione di chi può vivere in una situazione privilegiata, su un’isola felice, sul cucuzzolo di una montagna. Agli altri tocca la sfida di affrontare la società, così anche la violenza. Anche quella che si vive nella quotidianità più spiccia tra comuni mortali. Come bisogna comportarsi con un ubriaco che è molesto in maniera ripetuta con una donna? Risolvere un conflitto in maniera autonoma è una sfida, sia per chi crede di essere un rivoluzionario ma anche per tutti coloro che immaginano di non dover delegare i propri compiti a qualcun altro. L’utilizzo della violenza deve essere comunque il minimo indispensabile e nel modo più efficace. In quella sera di febbraio è stato possibile allontanare l’uomo senza torcergli un capello.
SRADICARLI
Per chi si ostina a lottare per un cambiamento radicale e per il più largo conflitto sociale i tempi paiono plumbei, mentre le strade del quartiere sono in via di trasformazione per fare largo al profitto. Le inchieste contro chi si organizza all’Asilo Occupato e lotta nel circondario sono ormai cadenzate e costanti da anni. Non sono solo le forme di resistenza in quartiere contro sfratti e retate gli episodi che attirano l’attenzione e fanno da traccia alle carte imbrattate della procura per comminare le ennesime misure, ma anche fatti sempre più pretestuosi come l’ultimo in questione. L’accumularsi della ricezione di misure cautelari sulle medesime persone, sugli stessi compagni, le stesse compagne, crea un curriculum giudiziario adatto per definire la pericolosità sociale e proporre delle misure di prevenzione. La Sorveglianza speciale è la misura low cost per riportare anche i più irriducibili a casa, da soli, in mezzo alle più banali preoccupazioni, imbrigliati nell’obbligo di dimostrare una vita normale, in regola.
Alzando lo sguardo è palese che sia in atto il tentativo di estirpare tutte le forme di esistenza ostili o incompatibili col nuovo ordine spaziale e sociale in programma per quest’area della città, partendo dall’eliminazione delle condizioni materiali per incontrarsi in strada. Ce lo dicono i dissuasori che non ci fanno sostare seduti sui panettoni, i giardinetti che vengono telecamerati, la volante della polizia sempre più presente assieme al costo della vita che rincara sempre più. La speranza è che non siano frasi retoriche e tronfie a sancire la fine di questo stentato testo, ma il susseguirsi logico di pochi ragionamenti.
Chi è stato costretto fuori dal perimetro di Torino o in qualsiasi modo la repressione gli ha impedito di continuare a progettare la sua vita, congegnare sogni, assemblare barricate all’occorrenza, scegliere assieme che fare nel vivo dell’urgenza o nella calma piatta dell’attesa in questa città, conserverà dovunque uno sguardo sul mondo che lo spingerà a capire come lottare, guardarsi intorno per trovare dei complici e degli strumenti per farlo in qualsiasi luogo si trovi.
Nel frattempo la storia di queste quattro strade è in continuo divenire anche se qualcuno vuol raccontarla come una faccenda cristallizzata, con un prima ferale e un avvento di novità benefiche che porteranno la pace. Ogni giorno lo spazio deve essere governato e messo a posto per continuare a mettere sotto controllo e a ritmo produttivo chi ci sta dentro e chi ci sta ai margini. Ogni giorno le storie continuano, si perpetuano, a colpi di strattonamenti. Lo spazio ripulito della Lavazza ospita la fatica di chi si occupa delle pulizie alla notte, forse non tutti gli studenti che abitano gli alloggi attorno hanno genitori con risorse infinite, queste strade verso l’ufficio immigrazione sono percorse da tanti stranieri che chissà quando non gli andrà di deglutire la violenza della burocrazia, di essere maltrattati e ricattati per un pezzo di carta … così altre storie persistono.
Basta tenerle a mente, quelle accadute, quelle che avvengono. Basta sapere guardare quelle che avverranno. Sentirle direttamente e sapersi arrabbiare. Storie perpetue, con improvvise eruzioni.