Resistenze

La guardia mi consiglia di lasciar la mia roba nel corridoio: «Qua dentro, sa com’è…». Poi apre il blindato e mi spinge dentro, e io saltello attento a non pestare i corpi distesi. La cella è lunga quattro passi, e larga cinque. Compreso me, dentro siamo in dodici: quattro se ne stanno allungati sul gradino di cemento che rasenta due dei muri, e gli altri per terra. Venti coperte per dodici persone, per cui c’è chi ha il dubbio se utilizzare quella in più come cuscino oppure per coprirsi e chi non ha diritto nemmeno a questo dilemma.

Mi guardo intorno. Uno di noi è qui da ieri mattina, ed ancora aspetta di vedere il giudice ed avere notizie dei suoi. È vestito da stradino ed è in Italia da vent’anni, e mi racconta che è lì per aver difeso con troppa veemenza se stesso, sua moglie e i suoi figli dallo sfratto. Altri due, con i volti scavati di vecchi, sono stati ammanettati a sorpresa nella questura di corso Verona, dove erano entrati a chieder notizie del proprio permesso di soggiorno. A far loro lo scherzo, neanche a dirlo, la solita Rosanna Lavezzaro. Un altro racconta del ristorante dove ogni tanto lavora e per un attimo la conversazione si fa animata: tutti conoscono quell’angolo di Corso Giulio Cesare, giusto dietro corso Novara. È come se l’agente si portasse su e giù dall’ufficio matricola alla cella ogni volta un pezzetto di città, da sbatter per terra e comprimere ed aggrovigliare in coperte puzzolenti. Ciascuno con la sua incertezza per il futuro, e la sua incredulità.

Poi uno da terra si alza, tira fuori di non so dove un piccolo asciugamano, lo mette per terra ritagliandosi uno spazio tra ginocchi e schiene e su quell’asciugamano rosa si mette a pregare. Silenzioso, ma alzandosi ed abbassandosi e mettendo la fronte a terra e facendo tutti i segni che bisogna fare perché sia una preghiera valida e ben fatta. Intanto che lo guardo mi sforzo di formulare dentro di me un discorso sull’oppressione religiosa e sulla condizione delle donne nei paesi più bigotti e su tutte quelle altre cose vere e importanti che bisogna sempre tenere a mente. Ci provo, ma non ci riesco. Perché quegli inchini e quei gesti, fatti in quella maniera e lì dentro, non mi sembrano affatto un atto di sottomissione, bensì di resistenza. Un modo per dire «sono un uomo», quando chi ha tutta la forza dalla sua ti sta dicendo «sei una bestia»,  e lo fa chiudendoti in una stalla e strattonandoti e buttandoti a terra. In fondo son gli uomini che pregano, e le bestie no.

E noi da uomini resistiamo.

(Le Vallette, 24 febbraio)