Dentro il confine

 

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La settimana scorsa alla Scuola per benestanti scrittori di Baricco, l’Urban Center Metropolitano ha organizzato una serie di incontri per raccontare lo sviluppo urbano di Copenaghen, Rotterdam, Marsiglia e – il “caso” vuole –  Lione, ricollegandolo a quello del capoluogo piemontese. Il titolo alquanto evocativo OLTRE IL CONFINERitratti di 4 città europee per Torino, a richiamare la fluidità e la vicinanza prospettica delle metropoli all’avanguardia, ci fa rabbrividire. Tuttavia riteniamo sia sempre importante – stomaco permettendo – andare a buttare un orecchio per sentire dal vivo i discorsi sugli orizzonti strategici, effettivi o anche solo retorici, che governanti e padroni portano avanti sulla nostra pelle.

La sala conferenze di Baricco che ospita gli incontri rispecchia perfettamente il gusto estetico dei tempi: materiali industriali a comporre la tribuna e il palchetto, muri non intonacati per lasciar in evidenza la vecchia destinazione d’uso di arsenale e per sottolineare anche con l’ambiente l’eredità storica ricevuta dalla città. Per dar ancor più sentore di creatività, seduti all’angolo due grafici riportano tutto ciò che si dice su una lavagna infografica.

Solita presentazione per bocca del sindaco Fassino e del più preparato sul tema assessore all’Urbanistica Stefano Lo Russo. Un vero e proprio sfoggio di lodi poco velate sulle capacità dell’amministrazione comunale nell’indirizzare le trasformazioni della città fino alla conquista del titolo di capitale italiana nell’innovazione, in Europa seconda solo ad Amsterdam. Del resto il discorso ideologico sull’innovazione urbana sabauda non può che acuirsi nel turpe agone della campagna elettorale. Le parole del primo cittadino, il quale nello sfoggio di dati positivi di crescita confonde persin ingegneri e architetti, sono come lui piuttosto scarne: la rigenerazione urbana degli ultimi anni a marchio centro-sinistra è diventata motore economico di una nuova identità per Torino e ha posto le basi strutturali per un futuro sfavillante. Vivaddio!

E giù di numeri. Tra gli ostentati cinque milioni in più di turisti soprattutto in occasione dei grandi eventi e la rete ferroviaria quadruplicata, non si sa se ridere per i dati fittizi al netto delle statistiche generali o se piangere per quelli plausibilmente reali, segnale per i nemici del capitalismo che tira piuttosto male. Ancor più prosaico l’intervento preliminare di Vincenzo Ilotte, presidente della Camera di Commercio e finanziatore della sceneggiata conferenziale, che oltre a raccontare di tutta la profumata pecunia prodotta all’anno dalle migliaia di imprese torinesi, ribadisce una grande verità sulla città come storico dispositivo di sfruttamento economico: le aree urbane (e la vita di chi le abita), così come in passato l’esempio di Lingotto-Mirafiori suggerisce, sono sempre caratterizzate dall’attività o dalle attività produttive che vi vengono allocate o intorno alle quali nascono.

Beh, non si può che dargli ragione. Difficile non pensare alla strutturazione urbanistica della periferia sud, o in generale della ville industrielle novecentesca, non vedendoci l’impronta dei padroni nella costituzione delle strade verso la fabbrica come nel caso degli incroci davanti alla porta 5 della FIAT, nella nascita di nuovi quartieri ghetto per gli operai nel boom dell’industria, nelle piazze di vetrine per la distrazione ammassata del sabato. Che la funzionalità della città fisica abbia da sempre una matrice precisa nell’interesse degli investitori lo si vedeva bene anche alzando lo sguardo, senza che il signor Ilotte scomodasse troppo la sua laringe.

Ci piace però anche ricordare che a volte questa funzionalità può essere sovvertita: con il materiale edile per la costruzione di palazzi lanciato contro la polizia come nella rivolta del 1969 di corso Traiano, frantumando le vetrine come in piazza Statuto nel 1962, con il sabotaggio ottocentesco al cantiere del Ponte Mosca per contrastare il nuovo progetto industriale verso nord e i conseguenti sgomberi. Suggestioni storiche – certo – ma non significa che le pratiche di cui sono espressione non possano in vesti nuove e imprevedibili tornare a rompere le uova nel paniere di chi possiede la città, quegli stessi che hanno organizzato questa due giorni di convegni.

  • Città diverse, molteplici sistemi amministrativi, stessa direzione.

Gli incontri sono organizzati intorno alla presentazione di un caso-studio di riqualificazione urbana per ogni città presa in esame da parte di ospiti internazionali che a vario titolo si sono occupati dei progetti: un’area ex-industriale a nord di Copenhagen da trasformare in quartiere eco-sostenibile; due carceri dismesse da riconvertire situate nella penisola alla confluenza dei fiumi lionesi; l’utilizzo degli spazi vuoti del centro di Rotterdam; la messa a nuovo delle aree portuali di Marsiglia.

Un’importanza cruciale comune a tutte queste città è quella tracciata riguardo alle infrastrutture e alle aree limitrofe. Come nel caso torinese della Variante 200, i grandi progetti di mobilità cittadina sono motore indispensabile per l’economia dei flussi e per la valorizzazione immobiliare e commerciale dello spazio intorno.

A seguire la specifica presentazione per ogni città, dal palchetto una “tavola rotonda”, una serie di considerazioni tra esperti dell’urbano nostrani (amministratori pubblici, soprintendenti, architetti, progettisti, rappresentanti delle fondazioni bancarie, etc.), che ristabilisce il focus su Torino.

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Soffermarsi qui su ogni singola progettualità sarebbe un esercizio di tecnicismi poco utile. Molto più interessante per noi è invece carpire il discorso comune nelle strategie di sviluppo socio-economico così da riuscire pezzo alla volta ad abbozzare quali tendenze future di sfruttamento si costruiscono proprio a partire dal contesto urbano.

Ed è quantomeno doveroso partire dalla governance di questi processi perché al di là delle sottili differenze che le varie legislazioni statali prevedono, questa si struttura ovunque sulla partnership pubblico-privato all’interno della negoziazione di interessi comuni di gestione del territorio, dell’ordine e degli obiettivi di profitto delle parti in gioco. Un modus operandi che viene sottolineato continuamente dai tecnocrati al dibattito che riportano proprio il caso, piccolo ma eloquente, della Scuola Holden. Un esempio, questo, perfettamente riuscito di collaborazione partenariale: c’era un’esigenza da parte del Comune di installare poli culturali di riqualificazione in Borgo Dora, luogo considerato difficile e in preda al disagio sociale e all’abusivismo dei suoi abitanti, per riscoprirne le bellezze architettoniche, le potenzialità nell’attirare investimenti e nuovi abitanti con stili di vita più alti; c’era un interesse economico del mastro Baricco di potenziare la sua attività economico-culturale con una nuova sede di pregio storico ed estetico. Presto detto. L’inaugurazione della scuola per portafogli gonfi ha significato anche l’arrivo di giovani scrittori nelle case ristrutturate da poco del borgo e il moltiplicarsi di localini e bistrot. Una vera e propria forza di emanazione che ha plasmato lo spazio intorno. Lo ricordano anche lorsignori, non facendo però menzione di qualche “piccolo dettaglio” come il complementare incremento degli sfratti e il giro di vite massiccio contro l’abusivismo mercatale della zona. Del resto il discorso sulla bellezza e la qualità della vita e degli spazi, su servizi efficienti, su una città ecosostenibile, è una promessa di felicità per una certa fascia di popolazione e non per chi sta alle pezze. Ed è una questione economicamente strutturale, non di diritto sociale o di volontà di un parte politica o di un’altra.

È parte della lotta di classe che dall’alto ci stanno muovendo in maniera sempre più sofisticata e sempre più violenta.

Sofisticata perché s’accompagna a un immaginario ben dettagliato di città bene-comune e di città della conoscenza. Un’importante arma di governo della popolazione è quella della cittadinanza attiva e compartecipe dei momenti decisionali. Ma in realtà i cosiddetti cittadini volenterosi non sono chiamati a far altro se non ad attuare in base alle proprie capacità personali i grandi piani a monte. Momenti di discussione su problemi sociali o vero e proprio lavoro in associazioni e progettini – guardacaso finanziati dai grandi padroni come CRT e San Paolo – e in molti si sentono civilmente soddisfatti. Peccato che le progettualità urbane, come ben mostrano queste conferenze dell’Urban Center, si basano su previsioni economiche che dettano specifiche linee guida fino ai vent’anni successivi

Non da meno è il ruolo della conoscenza, intesa non solo nella costruzione di un clima culturalmente attraente, ma soprattutto come  frutto dell’installazione di poli universitari d’eccellenza che abbiano un ruolo strutturale di ricerca nelle tecnologie dell’innovazione.

Non a caso, tra un intervento e l’altro, gli specialisti dell’urbano tessono le lodi del primo piano strategico di Torino, ben più di un piano regolatore come quello del 1995, ma un’insieme di studi statistici, sociologici e demografici che dalla fine degli anni novanta in poi hanno stabilito quale nuova identità si dovesse costruire sulle macerie di quella industriale, quale coltre luccicante sulla povertà diffusa dell’ex città-fabbrica. Un nuovo habitus, quindi, che a partire dal patrimonio immobiliare dismesso dell’industria e dalle bellezze barocche del centro, facesse emergere quanto il capoluogo sabaudo potesse reinvestirsi in chiave culturale, in servizi d’avanguardia, in grandi eventi. Le Olimpiadi invernali del 2006 sono state in questo senso la prima grande occasione di presentazione al mercato internazionale di una nuova merce rinnovata, la città di Torino.

Oramai è chiaro che le città sono prodotti in competizione tra loro nell’attirare investimenti, ed è questo, oltre alla rete infrastrutturale e ai vuoti urbani lasciati dall’industria pesante, ciò che accomuna tutte le città prese in esame: in un’estetica culturalizzata riconoscibile che possa identificare specificatamente una città, i governanti devono costruire il massimo della prestazione di servizi in base a standard elevati di tecnologia smart, comuni dal punto di vista internazionale. Per dirla più semplicemente si tratta di statistiche sui flussi interni grazie ai dati forniti dagli utenti stessi quando usufruiscono di un servizio, di gestione razionata delle risorse energetiche sia negli spazi interni che esterni, della rivalorizzazione dei luoghi aperti, verdi ma videosorvegliati. Dal grande capitale di dati si può scoprire così come si muove la gente, dove staziona, insomma cosa fa.

Questo ha il suo bel riscontro economico e politico perché permette di sapere come allocare al meglio gli investimenti e rende sempre più pervasivo il sistema di controllo.

  • La gestione del conflitto e la mescolanza tra classi

Accennavamo sopra anche di violenza più esplicita. L’esempio più lampante è quello riportato da Marsiglia, dove il progetto di interesse nazionale Euroméditerranée, atto al rilancio economico dei centri portuali, mostra il braccio duro delle rimodulazioni urbanistiche: un’area portuale, composta perlopiù da edifici dismessi dell’indotto del porto e da palazzoni di poco valore abitati da popolazione povera, è stata demolita per far nascere un nuovo quartiere smart ed ecosostenibile. Marsiglia – dicono – era una città depressa e anche il centro continua tutt’oggi ad avere una popolazione refrattaria all’innovazione e non impiegata in attività produttive lungimiranti. Ecco perché hanno iniziato a buttar giù le case delle persone per tirar su dei palazzi all’avanguardia che fossero funzionali a una popolazione più internazionale, produttrice di maggior profitto. Non è dato sapere se poi il progetto abbia raggiunto tutti i suoi reali obiettivi, se non quello per cui molti hanno dovuto sloggiare da quella parte di città. Che siano arrivati realmente manager e city users da ogni dove nel nuovo quartiere, alla fine sembra non sia importante raccontarlo. Bisogna fare marketing, vendere le città ed è quello che il dirigente di Euroméditerranée ha giustappunto fatto alla Holden.

E comunque, a nostro avviso, male per male, meglio un quartiere nuovo vuoto che un quartiere nuovo riempito con la feccia di rappresentanti dell’imprenditoria.

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Non solo costruzione di nuovi edifici hi-tech per la città francese. Il dirigente marsigliese nella sua presentazione tiene a sottolineare il ruolo che un certo tipo di “conflitto” ha nell’oliare meglio la macchina della riqualificazione. È il caso de “La Friche La Belle de Mai“, un ex manifattura di tabacco non ancora investita da nessun progetto fino a che non è stata occupata da degli artisti che hanno iniziato a svolgerci attività culturali con un certo seguito e imbellettarla con murales d’autore. Il conflitto  – se così può essere definito – portato dall’occupazione ha mostrato quale profitto poteva scaturire da quella esperienza. Così gli amministratori pubblici non si sono lasciati sfuggire l’occasione e ci hanno costruito su un Masterplan per far sì che quel luogo diventasse un “contenitore creativo” per la valorizzazione della produzione artistica e artigianale. Difficile non vederci una netta assonanza con il caso della Cavallerizza Reale di Torino per cui da poco è stato promosso il Masterplan.

Ma andando avanti nella presentazione marsigliese, il discorso si fa più pragmaticamente sociale andando a toccare un altro tipo di conflitto, più difficoltoso, quello dell’ostilità ai cambiamenti che nasce in contesti di povertà. Un motivo continuamente ripetuto, e non solo dal dirigente francese ma ridondante in tutti i contributi, è quello della prevenzione del conflitto attraverso la mescolanza negli spazi riqualificati di classi sociali diverse. Nei nuovi quartieri o nelle aree riqualificate la residenzialità deve essere programmata prevedendo abitazioni a canone calmierato con contrattualità a breve scadenza, sia per avere una certa mano d’opera che materialmente porti avanti la carretta, sia per disinnescare il conflitto di cui sono possibilmente portatrici forti concentrazioni di popolazione indigente.

Non tutti i “diseredati” della città hanno però eguale possibilità di accedere a queste progettualità de “l’abitare“.

  • L’uso transitorio degli spazi e dei servizi: la Sharing Economy

Questi nuovi spazi destinati alla residenzialità, infatti, non sono pensati per tutti sulla base della proprietà ma su quella dell’uso transitorio degli spazi. Il possesso fattuale degli immobili è perlopiù di grandi fondazioni, di enti economici o di ricchi che possano permettersi costi esorbitanti al metro quadro. D’altronde non di un tetto si sta parlando ma di un sistema integrato in cui la casa è solo uno dei servizi dell’abitare: controllo intelligente della distribuzione energetica, asili per i bambini, spazi per l’interazione o da concedere ad associazioni che si occupano di fare nuovo welfare. Tutto ciò ha necessità pratiche di manutenzione degli spazi ed è così che viene compensato il canone calmierato dei poveri, i quali devono “contribuire attivamente” affinché la produzione di servizi sia efficiente. Non ne servono poi molti, perché le posizioni in questo settore devono essere a diverso titolo qualificate, ma di giardinieri, spazzini, elettricisti e cuochi non ne possono fare a meno.

Lavoratori senza salario, diremmo noi; partecipanti all’abitare comune, dicono i prezzolati progettisti. Un abitare comune che prevede, nella strutturazione del territorio, postazioni di utilizzo sharing di altri beni come l’auto o la bici.  Se c’è stato un tempo in cui il proletariato produttivo veniva ammaliato dai capitalisti con il sogno di una piccola casa e un’utilitaria di proprietà, pare proprio che sia finito; gli ammaliatori sono passati dalla massima de “la proprietà non è più un furto” a “per buona parte della popolazione la proprietà può essere superflua”. Un vero e proprio disciplinamento al lavoro gratuito in cambio di piccoli servizi welfaristici e uso transitorio dell’abitazione e dei mezzi di mobilità. Tutto ciò significa che non ci si può esimere dall’essere produttivi e inseriti tra le maglie di questa economia dell’abitare, pena la perdita di tutto.

Quello della popolazione non produttiva è stato un leitmotiv  in queste giornate conferenziali. Si collega a questo il problema gravoso per governanti e padroni della concessione del diritto alla proprietà anche alle classi povere: funzionale in passato alle politiche keynesiane di sviluppo della società industriale, oggi talvolta controproducente perché permette ad alcuni di arrancare pur non mantenendo una continuità occupazionale. 

D’altro canto lungi da noi difendere il principio di proprietà. Tuttavia non ci possiamo esimere da vedere come, tra un ciclo economico e l’altro, il capitalismo riesca a dare nuovi significati ai suoi stessi strumenti, in maniera adeguata alle nuove traiettorie di profitto e sfruttamento.

E se capita di leggere in qualche inserto culturale all’acqua di rose che il capitalismo avanzato va verso la cancellazione della proprietà, sappiamo bene che è esattamente il contrario: la direzione è quella del suo rafforzamento e della sua estensione per fondazioni, imprese, grandi proprietari immobiliari.

Un altro confine, dunque. L’ennesimo.

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