Agopuntura

 

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Un articolo del 1964 sulla Stampa Sera ipotizzava per Torino una nuova veste da accompagnare al milennio in arrivo. Stazioni interplanetarie, colline artificiali e un’estetica futuristica che non ha poi visto realizzazione. Stiamo parlando di un periodo in cui la FIAT era al suo massimo produttivo e in cui tutte le vie della città erano contornate da muri di fabbriche grandi e piccole, eppure in questa rappresentazione d’antan non c’è traccia alcuna dell’attività manifatturiera, di un qualche lascito architettonico del “periodo d’oro” della città industriale. Si parla piuttosto di uno spazio funzionale a banche, uffici, zone residenziali, locali per il divertimento diurno e notturno.

Dunque se la raffigurazione qui sopra, nonostante i grattacieli dei padroni sorti negli ultimi anni, ci risulta estranea, il succo della predizione lo è meno. È vero, negli ultimi vent’anni tante sono state le rimodulazioni urbanistiche, dalle nuove direttrici infrastrutturali della mobilità agli immensi vuoti industriali riconvertiti in attività commerciali o in sedi aziendali. Tuttavia la percezione visiva non si è presentata agli abitanti del capoluogo sabaudo come uno shock huxleyano, ma come un restyling di quelle bellezze che già la città aveva in potenza. Questa percezione non svela però la violenza alla quale i processi di riqualificazione si sono accompagnati: dallo svuotamento in massa delle fabbriche nel colpo di coda tra il 2008 e il 2010, passando per i costi immobiliari  sempre più alti nei pezzi di città in via di gentrificazione, fino allo sfruttamento sempre più pervasivo e intenso nei nuovi poli logistici e commerciali.

Il centro barocco, i quartieri limitrofi della borghesia bottegaia fine ottocentesca, i vuoti industriali e le architetture del ciclo della Torino-fabbrica non sono dei meri residui del passato a cui vent’anni di amministrazione del centro-sinistra hanno dato una nuova ragion d’essere alla luce dei nuovi tempi. Essi raccontano la storia degli interessi che mestolano di continuo la città, non per forza facendo tabula rasa delle strutture nate per un dato scopo come le stesse fabbriche. Proprio queste rappresentano un esempio calzante perché una volta persa la prima funzione produttiva sono diventate dei corpi morti a cui dare altra linfa, magari trasformandole in luoghi di cultura e intrattenimento che non richiamino più lo sfruttamento secolare e il sangue versato nel lottarci contro. Tutto ciò non investe solo il “patrimonio architettonico industriale” ma è un’opera generale di risignificazione dei punti sulla mappa urbana, di tutti quelli che possono essere ancora fonte di profitto se promossi per pregio di costruzione o per la suggestione storica della quale sono portatori. Quest’ultima è talvolta una costruzione per creare affezione ai luoghi e alle iniziative commerciali, come il caso qualche anno fa dell’installazione della mongolfiera in Borgo Dora a discapito dell’unico parchetto della zona. Nelle cartoline pubblicitarie l’operazione era giustificata dal fatto che il Balon prendesse il nome proprio da un pallone aerostatico presente un tempo tra le vie del borgo, una fandonia bella e buona. Così ogni pezzo di storia urbana non è che una rappresentazione e se ci vogliamo vedere qualcosa è che, al di là dell’uso specifico che si fa degli edifici e in generale dei luoghi, la città ha dei proprietari che quasi sempre ne dispongono a piacimento.

“Ma la città oggi è bella”, dicono a destra e a manca padroni e governanti.

Mentre continuano a blaterare della nuova età dell’oro della città accompagnati da giovani startupper, noi continuiamo a martellare sull’importanza di rendere intellegibili i piani di politica urbana. Analizzare la morfologia dei quartieri, la loro plasticità reale e immaginifica sotto le mani delle amministrazioni pubbliche e degli investimenti privati,  riuscire a intravedere quali obiettivi di governo si sedimentano nella rappresentazione di uno spazio fisico, non sono vezzi fini a loro stessi ma una doverosa preparazione di cui la lotta di classe contro i meccanismi di sfruttamento e controllo metropolitano necessita.

Ecco perché siamo così curiosi di vedere, appena sarà disponibile, il piano AxTo, il nuovo piano per le periferie della giunta Appendino, presentato in pompa magna in questi giorni da tutti i media locali con un sottotitolo alquanto inquietante: operazioni di agopuntura urbana, che non è difficile interpretare come interventi mirati che dovranno essere in grado di stimolare lo sviluppo dei quartieri nei quali sono pensati.

Il piano riguarda soprattutto la zona del Parco Dora, Campidoglio, Lucento, Barriera di Milano e naturalmente Aurora. Del resto già lo sapevamo che c’era qualcosa a bollire nel calderone. Prima dell’estate alcuni studenti d’architettura s’aggiravano intorno ai giardini ex Gft di corso Vercelli, intenti a studiarne le future possibili destinazioni d’uso, e nei pressi dell’Asilo occupato di via Alessandria con in mano scartoffie sull’agopuntura urbana, progetti destinati all’ex scuola materna, considerata “spazio abbandonato”. Intanto i lavori per il palazzo dirigenziale della Lavazza proseguono là dietro e nel largo Brescia dirimpetto, dove sono comparsi persino grossi sedili in pietra che sembrerebbero ricordare la forma di chicchi di caffè. 

Non ci stupiamo di certo dell’interesse luculliano per questo quartiere e tanto meno di quello schiettamente repressivo contro gli spazi in cui si organizzano percorsi di lotta. Se per molti questo piano sarà il banco di prova della nuova sindaca “dal basso” che sulla retorica della riscoperta delle periferie ha basato la campagna elettorale, per noi invece è una nuova sfida contro una strategia amministrativa differente da quella del PD, ma che deve gestire le stesse risorse nello stesso quadro di governamentalità che il meschino principio economico traccia.

Vedremo come si muoverà il nuovo nemico anche se tra annunci sulla sicurezza partecipata, applicazioni smart per la delazione e videosorveglianza diffusa abbiamo già qualche intuizione.