Dal tribunale

 

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Lunedì si è concluso il primo atto del processo contro la resistenza agli sfratti realizzatasi in alcuni quartieri di Torino tra l’estate 2011 e la primavera del 2014. Il bilancio della sentenza è di 27 compagni condannati a pene che vanno da 1 anno ai 2 anni e 9 mesi di reclusione. Alcuni imputati sono stati condannati al risarcimento di qualche proprietario di casa costituitosi parte civile e dei loro avvocati. Due compagni sono stati invece assolti e le accuse più gravi – il sequestro – cadute per tutti. L’udienza è stata anche l’occasione per salutare Beppe che si trova ancora alle Vallette.

Il giorno seguente altri compagni hanno scelto di presentarsi all’udienza del processo in cui sono accusati di aver fatto violenza contro dei carabinieri per ostacolare un controllo di documenti, procedimento per il quale sono stati arrestati a maggio e per sei mesi sono stati rinchiusi prima in carcere e poi a casa con l’impossibilità di comunicare, per il quale ora hanno l’obbligo di firmare in maniera quotidiana in caserma. I compagni hanno deciso di trovarsi in aula per leggere una dichiarazione per precisare alcune cose.

Ve la presentiamo qui di seguito.

“Volevamo dire due parole rispetto a questo processo e più in generale al contesto in cui questo, come altri procedimenti, vengono alla luce. Siamo accusati di aver tentato di impedire un controllo dei carabinieri in via Alessandria. Una pattuglia, poi due, poi tre, intervenute a controllare due ragazzi che uscivano da una festa-benefit che si stava svolgendo all’interno dell’Asilo occupato. Per quanto ci riguarda, quella sera, chi era lì, ha posto in essere una contestazione all’ennesima intimidazione nei confronti di chi frequenta questo luogo, negli anni, al centro di numerose lotte. Intimidazioni che si verificano durante tutte le iniziative da noi organizzate.
Non vogliamo disquisire sulla banalità dei fatti avvenuti che, tra le menzogne dei carabinieri e le solite esagerazioni finalizzate a colpire alcune persone specifiche, si commentano da soli.
Da anni, la procura di Torino, con la connivenza di alcuni Gip, cerca di sfruttare qualsiasi accadimento ci riguardi per inquisirci, arrestarci e allontanarci.
Questo non ci ha mai stupito, conosciamo qual è il compito sociale ricoperto da questi individui.
Un’accusa di resistenza gonfiata fino a diventare un ridicolo sequestro di persona, poi caduto al Riesame, basta a far capire qual è il contesto in cui arresti e repressione nei nostri confronti nascono e si concretizzano. Sappiamo perché siamo in quest’aula, perché veniamo rinchiuse periodicamente nelle carceri, allontanati, spiate, malmenati nelle questure, così come accade a tante altre persone isolate a cui va il nostro pensiero. Sappiamo perché da sei mesi siamo ristretti/e e non ci viene permessa, stupidamente, alcuna comunicazione con l’esterno. Il motivo è banale: proviamo ogni giorno a lottare. Questo è il vero problema.
Lottiamo contro i Cpr e le retate delle persone senza documenti, ci opponiamo agli sfratti, di singoli e famiglie, lottiamo contro il carcere e la sua brutalità, contro la riqualificazione del quartiere che sta piano piano espellendo ai margini la popolazione povera che lo abita, riducendo delle esistenze a meri numeri da soppesare, sfruttare o eliminare.
Non è solo questo chiaramente. Il discorso non si esaurisce di certo qui, ma una comprensione più ampia è impossibile e soprattutto impercettibile in questo luogo. Ci teniamo solo a fare un’ulteriore piccola precisazione.
Ormai siamo abituati alle invenzioni delle forze dell’ordine, alla loro capacità di costruire i fatti come meglio credono. In un altro processo verso alcuni/e compagni/e è stato, addirittura, risposto che “tre poliziotti non possono dire il falso”, quindi, pur volendo, non potremmo mai provare a controbattere di fronte a una così grande onorabilità, un valore celebrato con fedeltà da Bolzaneto fino ai fatti di Firenze.
È inutile dire che, chiaramente, non siamo interessati/e ad agire su questo piano. Ci preme però dire una cosa rispetto alle frasi asseritamente pronunciate da qualcuno di noi all’indirizzo della pattuglia. La frase seguente: “bastardi figli di puttana vi tagliamo la testa come fanno i musulmani”, non ci appartiene e mai ci apparterrà. Da sola questa frase potrebbe risolvere l’enigma kafkiano di questo processo. Queste parole sono lo specchio di una mentalità sessista e islamofoba che appartiene a colui che dice di averla ascoltata. Infatti, poiché l’ha inventata di sana pianta, ha semplicemente pensato cosa lui stesso avrebbe gridato nei confronti di qualcun altro in un momento di concitazione. Non ci stupiamo che da un mondo fatto d’oppressione, come quello rappresentato da una divisa, possa scaturire tanta creatività. Noi questo mondo, fatto anche di sessismo e xenofobia, cerchiamo di combatterlo ogni giorno e queste parole, sia chiaro, ci inorridiscono. Siamo contenti/e di condividere invece la seguente frase pronunciata invece da alcune nostre amiche puttane: “ribadiamo che poliziotti, militari e banchieri non sono figli nostri”.
Un’ultima cosa. Se pensata di poter reprimere l’opposizione ai rastrellamenti alla violenza della forze dell’ordine, crediamo, che non servirà a niente imprigionare qualcuno di noi. La resistenza ai soprusi quotidiani, lungi dall’essere pianificata, nasce, fortunatamente, spontanea nei quartieri e appartiene alla gente nelle strade.”