Inseguendo la chimera pt.5

NOTE A PARTIRE DALL’OPERAZIONE SCINTILLA

Dopo mesi concitati, nel tentativo di dare una degna risposta allo sgombero dell’Asilo e all’arresto di sei compagni e compagne, nel tentativo di mantenere viva la voglia di lottare in questa città, ci prendiamo ora il tempo di fare alcuni ragionamenti su questo teorema inquisitorio partorito dalla Questura, fatto proprio dalla Procura e avvallato da una GIP. Un teorema che per il momento non ha retto il primo impatto con il Tribunale del Riesame, dopo tre mesi sono infatti usciti dal carcere cinque compagni, ma che costringe ancora Silvia tra quelle mura e in condizioni di detenzione particolarmente afflittive.

A indagini ancora aperte vale la pena spendere sopra queste carte qualche parola, tra le altre cose perché contiene alcune indicazioni che sono il segno dei tempi su come costringere certi anarchici al silenzio, seppur non del tutto nuove. Già quindici anni fa infatti si poteva leggere in un libretto, dal titolo ‘L’anarchismo al bando’, di come le strategie repressive mirassero a “togliere agli anarchici ogni possibilità di agire in gruppi di più persone articolando anche alla luce del sole il loro intervento, proprio in quanto finalizzato all’insurrezione generalizzata”.

Questo lavoro di analisi uscirà a puntate, una alla settimana, che si concentreranno su alcune specificità dell’operazione Scintilla e della lotta contro i Centri di detenzione per immigrati. A scriverle sono alcuni compagni, alcuni imputati e indagati in quest’inchiesta, altri no, che nel corso degli anni si sono battuti contro la detenzione amministrativa.


Gli strumenti di lotta al vaglio

Si dirà forse una sacra banalità al cospetto dell’occhio avvezzo alle dinamiche repressive: le carte tribunalizie che reggono l’operazione Scintilla si basano su tesi che dicono tanto sulla visione del mondo degli inquirenti, nulla di decifrabile invece delle tensioni individuali, dei ragionameni discussi e degli strumenti utilizzati da tanti compagni e compagne che negli anni hanno ruotato intorno all’Asilo occupato.
Si correrà allora qui il rischio dell’ovvietà, valutandolo poco in confronto ad alcune considerazioni e pratiche che nelle lotte si sono impreziosite e che, arcane a qualunque sbirro di divisa o di toga, possano essere carpite solo da coloro i quali desiderano vedere distrutti gli assetti sociali che stanno alla base dell’oppressione.

Come scritto in precedenza, l’argomentazione accusatoria che dovrebbe reggere la tesi dell’associazione sovversiva (Articolo 270 Codice penale ottobre 1930) è basata sul monitoraggio della lotta contro i Cpr (furono Cie) dal 2015, ammettendo che la detenzione amministrativa è un dispositivo strategico dell’ordine democratico dello Stato, e che di conseguenza lottare contro questa significa sovvertire sostanzialmente una delle colonne che reggono la baracca. Parole di carta che nel loro essere esplicite, pane al pane e vino al vino, smontano senza rima le orpellose teorie sull’essenza della democrazia postulate dai cavalieri della costituzione italiana e dagli accademici internazionali della simbiosi sociale. E sebbene questo intercettare telefonate e chiacchiere da caffè da parte di solerti poliziotti politici avesse lo scopo principale di catturare quanto più possibile riguardo ai Cpr, giocoforza al vaglio delle indagini è passata una mole gigante di conversazioni, a volte amicali, a volte più strutturate, sul funzionamento della politica, sugli aneliti di rivolta, su teorie e analisi patrimonio del pensiero rivoluzionario degli ultimi due secoli, quest’ultimo interpretato (o per meglio dire, presentato) dai fini inquirenti come interamente farina del sacco di alcuni compagni, e non come un’eredità, certo vivificata nelle vite di tanti e tante, ma di certo non un’invenzione di sana pianta.
Ci sarebbe da ringraziarli del complimento, ma ci si limita qui alla constatazione di una mistura di ignoranza abissale e strategia per portare tutti in galera. Nei vari taglia e cuci di conversazioni riportate nel faldone, infatti, alcune sono discussioni che sfiorano la teoria astratta, altre invece sono parole di compagni sottolineate per attribuire all’uno o all’altro gli strumenti della presunta associazione. Tra i principali vi sono Macerie – e storie di Torino -, Macerie su Macerie, i social, “il telefono delle espulsioni”.

Il blog è particolare oggetto di attenzione con una ridicola genealogia del dominio “autistici”, con la ricerca pedante degli autori degli articoli, con collegamenti automatici tra notizie pubblicate e attribuzione dei fatti in queste riportate; la trasmissione di Radio Blackout raccontata come mezzo oscuro di finalità di propaganda del gruppo, i social con i presunti possessori delle credenziali di accesso, e poi ancora il telefono per mantenersi in contatto con i detenuti del Cpr, con i suoi vari gigabyte di chiamate in cui da entrambi i capi dell’apparecchio emerge l’odio per quella schifosa prigione e per le condizioni becere al suo interno, poste dagli agenti come questioni che non è lecito emergano alla luce del sole.
Se si guarda questo imponente gigante investigativo emerge come gli strumenti presentati come i mezzi dell’associazione sovversiva legati a doppia mandata all’inimicizia verso la detenzione amministrativa non sono che il minimo indispensabile di cui è necessario dotarsi per chi vuole confliggere contro questo mondo, al di là di qualunque lotta specifica. Infatti a parte il telefono per sentire i ragazzi reclusi, mezzo peculiare per avere un contatto con l’interno di una prigione come quella, per accertarsi delle loro condizioni, dei sopprusi ordinari ed eccezionali che sono costretti a subire, ma soprattutto per venire a conoscenza delle esplosioni di rabbia, delle resistenze, delle tante rivolte, la descrizione degli altri strumenti si dipana su un piano dell’inamissibilità: non è possibile che nell’attuale società gruppi sparuti o numerosi di individui si organizzino al di fuori delle tante forme associative consentite e pubblicizzate dal capitalismo autogestionario, si diano gli strumenti per farlo e – signore e signori – raccontino della loro voglia di dare il giro a questo mondo!
Questo piano discorsivo di messa al bando non stupisce e, lasciando da parte la narrazione petulante sull’anarchismo, si deve constatare che la visione e l’immaginario neoliberale si è fatta negli ultimi anni sempre più massiccia e sentita. Il leitmotiv che questo mondo presenti tutte le possibilità per esprimersi, che basti l’idea giusta, magari finanziata da qualche fondazione o da proporre a qualche bando pubblico, è uno storytelling pervasivo e che mostra la sua forma più costrittiva quando i modelli di lotta conflittuali vi si oppongono. Come è possibile che in un presente il cui motto è che tutte le possibilità sono date, che basta trovare la strada di finanziamento giusta e sarà una rivoluzione, che invece ci sia chi questo esistente ricco di opportunità perfettibili dica chiaramente di volerlo distruggere? Non è certo ammissibile in questo che è il migliore dei mondi possibili!
In contrasto ai claim che reggono la promozione di miseria e sfruttamento, sono necessari senza ombra di dubbio degli strumenti. Quelli comunicativi tuttavia, non servono a opporsi a certi precetti della competizione e del lavoro su un piano delle effimere parole, quasi a voler proporre una narrazione più convincente, ma sono indispensabili per il racconto delle lotte che si tentano, delle vicende che realmente accadono per le strade di Torino, raccontate dalla prospettiva di chi quelle lotte e quelle vicissitudini le vive in prima persona, non delegate alla carta straccia dei giornali e alla loro prospettiva di falsificazione e di dominazione dei fatti. Non sono dunque mezzi di sensibilizzazione di una presunta opinione pubblica, né esche per anime belle che si scandalizzino degli orrori che si vivono nei bassifondi e nelle galere, ma testimonianze di alcuni interstizi in cui si patiscono sì le conseguenze della ferocia politica ed economica, ma soprattutto si prova a resistere e organizzarsi per combatterla. La comunicazione non è che quindi che corollaria a ciò che nelle strade, nelle assemblee, davanti ai portoni di case sotto sfratto, dietro ad alte cinta murarie, accade, prende vita. E gli strumenti sono quindi in primis quelli in cui si condivide il proprio odio verso il mondo, si prova a dargli una forma e una direzione ragionata, si capisce quali sono i dispositivi da cui parte e passa il controllo e l’oppressione e si prova ad attaccarli, riuniti in assemblee di sfruttati o in autonomia.
La storia dei nemici del Cpr, per esempio, ha trascorso varie fasi ma è rimasta da parte dei compagni sempre all’interno di una strada maestra che guida tante altre lotte: organizzarsi insieme a chi subisce una determinata oppressione e cercare di consolidare questo legame attraverso la condivisione paritaria delle informazioni e delle proposte, ma soprattutto attraverso tutto il sostegno possibile alla distruzione delle strutture, sia moralmente che – quando si può – praticamente.

Se vi siete persi le puntate precedenti di Inseguendo la chimera potete leggerle cliccando sotto.

Attorno a un perché

Silenzi

Segugi e alchimisti [In questa puntata ci siamo accorti di aver scritto un’imprecisione a cui abbiamo posto rimedio. L’errata corrige riguarda un passaggio nel quale si afferma che delle microspie erano state messe in una abitazione privata dove aveva vissuto per un periodo un compagno imputato. In realtà, come modificato nel testo, quel compagno non ci ha mai vissuto e si trattava di una mera supposizione della Digos, mostrando quindi quanto sia facile essere autorizzati a ficcare il naso negli affari di persone non solo non indagate ma anche non così centrali nelle reti di relazioni e rapporti dei compagni e delle compagne imputate. Senza contare che le microspie (per non sbagliare) sono state lasciate in casa pronte ad essere attivate all’occorrenza, anche se la Digos aveva espressamente richiesto all’epoca di stoppare l’intercettazione perché non era stato rilevato materiale utile in senso probatorio.]

Nelle strade, oltre le mura