Calma apparente

Sono giorni in cui Torino è assurta agli onori della cronaca per l’utilizzo sperimentale dei droni nel controllo del parco del Valentino e per l’implementazione della videosorveglianza in città garantendo, a tutti i negozianti che istalleranno delle telecamere coordinate con le forze dell’ordine, degli sgravi sull’Imu e sulla Tasi. Misure di controllo 4.0 destinate a diventare sempre più pervasive senza però toglier spazio a quelle più tradizionali, che ultimamante come ci suggeriscono le cronache cittadine, vengono utilizzate con particolare vigore.

Abbiamo scritto in più occasioni delle vicende relative al Balon e alla cacciata, manu militari, di una parte degli ambulanti, non ci siamo soffermati però un granchè sulla destinazione “offerta” loro, l’area di via Carcano. Una soluzione presentata come l’unica possibile, fatta accettare non tanto grazie al servizio navetta Balon-via Carcano offerto per i primi sabati dal Comune, ma attraverso strumenti ben più convincenti come i manganelli e gli scarponi della Celere e le multe da migliaia di euro della Polizia Municipale. La prima impressione che si ha nel metter piede in via Carcano è quella di una forte segregazione, dal forte connotato etnico per di più: gli italiani, tanto tra i venditori quanto tra i frequentatori del mercato, sono mosche bianche. Il mercato si svolge in un’area completamente recintata, con poche case nelle vicinanze e a pochi passi da una discarica dell’Amiat e dal Cimitero Monumentale, un luogo in cui non si può capitare per caso, in una zona  che non è certo di passaggio, a meno di dover buttar via una lavatrice vecchia o far visita a un proprio caro che non c’è più. Le autorità cittadine che hanno imposto questa nuova destinazione agli ambulanti avrebbero potuto scrivere sul cancello di via Carcano, a mo’ di epitaffio: «che la parte meno presentabile del Balon, quella che va al di là della dose di povertà necessaria a dar quel pizzico di folclore ad un mercato, continui pure a tentar di sopravvivere in qualche modo, purchè sia quanto più lontana e nascosta…»

Allontaniamoci ora da questo desolato mercato etnico verso alcuni tra i quartieri più popolati della città, Aurora e Barriera di Milano, individuati durante gli ultimi tavoli sulla sicurezza come le zone rosse, per usare la definizione delle circolari del Ministero degli Interni, quelle verso cui le autorità cittadine possono cioè adottare daspo e altre misure ad hoc. Tra queste spiccano i rastrellamenti che ormai da qualche mese avvengono con una certa regolarità sui tram ed in particolare sulla linea 4. Operazioni che si svolgono più o meno così: un buon numero di volanti della polizia circonda il tram bloccando un pezzo di strada, così da permettere a una decina di controllori Gtt e a qualche decina di agenti con tanto di unità cinofile di salire sul mezzo per controllare biglietti e documenti di qualche centinaio di viaggiatori, e perquisire chi attira l’attenzione dei cani. I controlli possono estendersi anche a più corse consecutive e durare quindi per un paio d’ore. Per un tempo prolungato, quindi, il tran tran quotidiano di un consistente numero di persone viene interrotto da operazioni che non sono volte a froteggiare  particolari accadimenti ma ad abituare piuttosto a un certo regime di controllo un determinato territorio. Il problema cui queste operazioni tentano infatti di far fronte è tutt’altro che contingente: l’aumento del numero di uomini e donne che fanno sempre più fatica a sopravvivere in una porzione di città soggetta a ingenti investimenti. Nella stessa direzione vanno i controlli e le retate di dimensioni più piccole che, senza soluzione di continuità, scandiscono oramai il ritmo dei giorni e delle notti in tante strade, piazze, condomini e locali di queste zone.

Un mix di controlli quotidiani e diffusi ed operazioni più muscolari che sono parte di una guerra ai poveri sempre più esplicita e che le autorità cittadine non tendono neanche più a dissimulare con gli artifici retorici propri della politica. Anzi. La dimensione psicologica di questa guerra ne è uno degli aspetti fondamentali. Il numero  di forze che la Questura sta ultimamente mettendo in campo, apparentemente spropositato rispetto all’oggetto di queste operazioni, così come la presenza sempre più asfissiante di forze dell’ordine ad ogni angolo di strada servono proprio, in primis, a diffondere paura e senso di impotenza e a render normale il vivere una vita braccata. Tanto in chi le subisce più direttamente, quanto in chi vi è coinvolto in maniera più sporadica e ne avverte comunque la profonda ingiustizia. Specie poi in periodi come questo, in cui le capacità di resistenza e mobilitazione più o meno collettive, più o meno organizzate non godono certo di ottima salute, questo velo di ineluttabilità tende a farsi più fitto. Gli sguardi fanno allora più fatica a cogliere quei comportamenti d’insofferenza che segnalano come la situazione sia tutt’altro che sottocontrollo. Un ragazzo che reagisce individualmente durante i controlli sul 4 e viene per questo portato in commissariato. Un uomo che vende olive al mercato di Porta Palazzo, cui viene sequestrata la merce perchè non ha tutte le carte in regola, e, sopraffatto dalla disperazione, torna in piazza la sera cospargendosi di benzina, salvo poi essere bloccato prima di riuscire a darsi fuoco. Un fatto che riporta immediatamente alla mente le sommosse tunisine di qualche anno fa.

Il terreno su cui si svolge lo scontro sociale è un piano inclinato, che può risultare più o meno ripido a seconda dei momenti, ma cambiare anche repentinamente inclinazione e soprattutto senso. Per fatti imprevisti ma certamente non imprevedibili. Non lasciarsi sopraffarre dal sentimento di impotenza, ostinarsi a mettersi in mezzo e proporre ad altri di resistere assieme, è utile non solo a invertire una certa inerzia ma anche a riconoscere quei segnali di quanto la misura della sopportazione sia colma.