Dietro l’angolo pt.7 – Lockdown, quarantena e zone rosse.
La produzione di spazi sicuri
Le zone rosse hanno oramai una loro lunga storia. Da misure di prevenzione attuate per difendere i capi di stato durante i grandi summit come il G8 (ad esempio a Genova 2001), erano poi state utilizzate per difendere le zone di interesse strategico nazionale (inceneritori, discariche e le grandi opere infrastrutturali come il cantiere di Chiomonte ) e ultimamente avevano fatto capolino, tra gli altri, nei quartieri torinesi più movimentati dal conflitto sociale. In questi ultimi episodi aveva decisamente stupito la sproporzione tra le misure di controllo attuate rispetto alla reale minaccia da contenere e alle conseguenze che queste misure imponevano alla popolazione residente.
Nel caso dello sgombero dell’Asilo, avvenuto il 7 febbraio del 2019, era stato circoscritto al traffico pedonale e automobilistico un quadrilatero di strade limitrofe all’edificio nelle quali si poteva accedere solo attraverso l’esibizione di documenti che comprovassero la residenza o l’attività lavorativa in quella zona. Nonostante le ben immaginabili conseguenze per l’economia del territorio le misure si erano protratte per un paio di mesi. Lo stesso è avvenuto per lo sgombero del mercato delle pulci del Cortile del Maglio dove per qualche tempo, nei giorni di mercato, è stata istituita una sorta di zona rossa, interdetta al traffico, nella piazza dove si svolgeva abitualmente questo mercato.
Al netto della comprovata volontà da parte delle forze dell’ordine di una dimostrazione muscolare in aree metropolitane poco obbedienti alle norme e alle leggi imposte ciò che balzava agli occhi in questo fenomeno era in sostanza una banalizzazione dell’utilizzo delle zone rosse senza alcun riguardo nei confronti delle reazioni che queste potevano scatenare in chi era costretto a subirne le conseguenze. È importante, ora, per comprendere l’utilizzo delle zone rosse nello scenario pandemico sottolineare alcune questioni legate a questa tecnica di militarizzazione dei territori.
La tecnica delle zone rosse è una misura concepita all’interno dei manuali di controinsurrezione e nasce con lo scopo di isolare porzioni del territorio dove l’ordine costituito viene messo in discussione, al fine di costruire degli spazi sicuri al movimento delle truppe e per le attività della popolazione collaborante (le cosiddette Green zone). La teoria delle zone rosse è quindi funzionale all’instaurarsi di questa dialettica tra spazi sicuri e spazi insicuri. Nel caso dell’emergenza Covid italiana ci si è trovati per un lungo periodo in assenza di questa dialettica. Ciò comporta due valutazioni differenti e per certi versi paradossali: la generalizzazione di questa tecnica, tra l’altra adottata con strumenti giuridici cangianti e contraddittori, che in sostanza sentenzia un fallimento dello Stato nel controllo della pandemia, non è una sofisticata strategia ma duna sorta di coprifuoco o quarantena adottata di fretta e con scarsi mezzi, uno strumento antico e quantomai abusato. La seconda valutazione riguarda la sua banalizzazione. L’estendersi indefinito della zona rossa e quindi il suo scarso significato strategico ha, però, sicuramente inculcato nella popolazione un precedente quantomai inquietante. Non è tanto, quindi, la misura in sé, dalla scarsa efficacia, ad essere preoccupante ma soprattutto il suo carattere storico e simbolico. Storico, perché rende comprensibile a chiunque cosa significhi una zona rossa e come ci si debba comportare in quella situazione. Simbolico in quanto allena gli spiriti a una ginnastica dell’obbedienza quantomai contorta e non così facilmente sbrogliabile.
Per tracciare quindi un filo rosso, che lega l’attuale gestione dell’ordine pubblico nell’emergenza con i suoi antecedenti, vorremmo sottolineare due aspetti che permettono di delinearne una continuità. Il primo riguarda essenzialmente la protezione degli interessi economici e dei capitali investiti nel territorio: che si tratti di accordi internazionali tra capi di stato oppure di aree soggette a investimenti infrastrutturali, o che si tratti invece di riqualificazione di quartieri semiperiferici oppure di contenimento di una pandemia che rischia di far collassare il sistema sanitario, la zona rossa compare laddove l’interesse economico è messo in discussione da circostanze esterne. E su questo punto, e in particolare rispetto alle questioni riguardanti gli investimenti nella riqualificazione, è chiaro che nell’incertezza e nella precarietà che contraddistinguono determinati quartieri marginali la capacità di difendere i capitali investiti non è un capitolo supplementare al bilancio dell’investimento ma è un capitolo organico alla strutturazione dell’investimento stesso.
Confrontando quest’ultima considerazione con l’attuale scenario epidemico, il cui decorso non è in nessun modo chiaro, è possibile comprendere quanta importanza rivesta economicamente l’efficacia delle misure di contenimento attuate da uno stato anche nell’ottica della competizione internazionale. Un secondo aspetto, che è già stato trattato nei testi precedenti, e che probabilmente risulterà maggiormente significativo nell’evolversi della gestione della pandemia, riguarda la delimitazione di spazi all’interno dei quali far stare la porzione di popolazione sacrificabile diminuendo il rischio per tutti gli altri. L’esempio dell’occupazione abitativa Salem Palace a Roma è significativa a riguardo: si tratta di un edificio occupato nel quale vivono 700 profughi ai quali è stata comminata una quarantena con tanto di presidio militare all’esterno a fronte di una trentina di positivi al Covid riscontrati all’interno.
Accanto a questioni prettamente tecniche si aggiunge la selva di decreti, decretucci, provvedimenti e ordinanze comunicati spesso la sera precedente alla loro entrata in vigore (alle 22 a reti unificate) che hanno reso indecifrabile quali fossero i comportamenti legalmente corretti e a quali sanzioni si andava incontro. In questa confusione si è fatto spazio violentemente il carattere soggettivo della legge e dell’ordine incarnato nello sbirro che ti ferma e da cui ci si può aspettare di tutto. Non c’è effettivamente niente di più indefinto che una situazione nella quale ogni singolo poliziotto può decidere la legittimità o meno di un tuo spostamento. Se a questo si aggiunge il fatto che i militari di Strade sicure dopo dieci anni di lavoro gregario si possono finalmente avvalere delle prerogative di un funzionario di polizia (e che nella fase 2 saranno integrati di 500 unità) il piano per il futuro è presto fatto.
La carica morale che permea il lavoro dei rappresentanti dello stato va di solito di pari passo con l’innalzarsi della loro brutalità. È sicuramente in questo aspetto dell’attività repressiva che si ritrova oggi meglio incarnato l’imperativo controinsurrezionale di produzione di una popolazione collaborante. In questo senso è importante rimarcare anche il ruolo che, perlomeno, in provincia e fuori dai grandi centri abitati hanno avuto la protezione civile e la protezione boschiva nel presidio del territorio, in particolare dei supermercati, durante i periodi più recrudescenti di questa fase 1.
Non da ultimo c’è la questione degli assistenti civici, in discussione in questi giorni che prefigura un’organizzazione e una messa al lavoro della pratica della delazione così ampiamente sollecitata dalle forze dell’ordine nei mesi precedenti. Sarebbe, però, troppo facile semplificare la situazione analizzandola come una prova o un esercizio controinsurrezionale comandato da una volontà precisa e chiara. Si tratta qui piuttosto di chiedersi cosa effettivamente sia stato appreso dai difensori dell’ordine costituito nel far fronte a minacce future. Del resto non è casuale il nesso, spesso metaforico ma non per questo meno pregnante, tra controinsurrezione e contenimento delle epidemie, fin dalle origini del pensiero controinsurrezionale. Il maresciallo Bugeaud, a capo della repressione dell’insurrezione parigina del 1834 e di quella algerina del 1841 presentava il suo libro La guerre des rues et des maisons come costituito “da consigli pratici del genere delle istruzioni contro il colera”. È necessario allora provare a ragionare e a intravedere come le tecniche apprese in questi mesi possano convertirsi ed essere usate in caso di conflitti sociali violenti e/o estesi.
Un esempio, al contrario, ma decisamente interessante riguarda la app meteorologica dell’Arpa Lombardia. Nata nel dicembre 2019 “AllertaLOM “ aveva come scopo, attraverso l’utilizzo delle tecnologie Gps, di avvertire gli utenti nel caso si trovassero in prossimità di un evento meteorologico pericoloso. L’applicazione, di proprietà della Protezione Civile, si è tramutata prima, senza tanto clamore, in un sistema statistico di valutazione del rispetto del lockdown e si è evoluta in una app per il tracciamento dei contatti Covid con tanto di questionario sui sintomi. Altro elemento interessante rispetto a queste tecnologie “dual use” è l’utilizzo dei droni, di cui durante questa pandemia si è ampliato e regolamentato il traffico e lo sviluppo di software capaci di monitorare automaticamente il rispetto del distanziamento sociale. “Social distancing” è un progetto che l’Aeroporto di Genova avvia con l’Istituto Italiano di Tecnologia, usando le telecamere di sorveglianza, che può generare una mappa dell’ambiente e circoscrivere un raggio intorno a tutte le persone presenti, segnalando quando sono troppo vicine. Grazie al progetto sarà possibile capire quali siano le aree a maggior rischio assembramento e generare avvisi in tempo reale in caso di mancato rispetto del distanziamento. Inutile sottolinearne i potenziali usi per questioni che nulla hanno a che fare con un’epidemia. Altri strumenti ancora, come il termoscanner, non fanno altro che radicalizzare il concetto di dual use. Si tratta infatti dell’introduzione di nuovi strumenti di controllo (che altro sono i termoscanner se non telecamere intelligenti?) giustificata tramite questa pandemia ma che materialmente posso essere utilizzati per tanti altri scopi. E’ necessario semplicemente sostituire il software al loro interno. L’unico ostacolo alla loro implementazione è oramai un problema tecnico.
In questa prospettiva le parole di questa discussione tra un esperto di controinsurrezione e un organizzatore di eventi riportate nel libro Out of the mountains. The coming age of urban guerrilla assumono un significato ancora più pregnante: “Iniziammo a speculare. Come si potrebbe combinare ciò che ho imparato a Baghdad rispetto alla protezione della popolazione dalla violenza estrema, con ciò che le law enforcement agencies sanno rispetto alle politiche community-based, i governi delle città rispetto al mantenimento di un ambiente urbano e ciò che la comunità olimpica conosce rispetto alla fornitura di sicurezza orientata alla preservazione dei flussi urbani? […] Possiamo modellare un approccio che replichi il modello sicurezza-più-servizi dei mega eventi sportivi ma su base permanente? […] Possiamo disegnare nella città stessa un sistema di sicurezza pubblica che mantenga la popolazione sicura e allo stesso tempo mantenga aperti i flussi che gli scorrono attraverso? Possiamo costruire questo, basandoci su ciò che gli architetti conoscono rispetto al metabolismo urbano, mettendo in sicurezza la città intesa come un organismo vivente, e non solo come un pezzo di terreno urbanizzato? E se possiamo farlo sulle città esistenti, possiamo inoltre costruirne delle nuove sulla base di queste conoscenze?”
Per questo, forse, è miope scandalizzarsi troppo per le misure adottate in questi mesi di lockdown sarebbe piuttosto necessario ragionare sui loro possibili effetti di ritorno e sui loro inaspettati aspetti “dual use”. Ragionare, quindi, sulla creazione di spazi smart, tendenza questa non inedita ma che subirà una forte spinta accelleratrice. Si prova, infatti, un profondo senso di vertigine a riandare con la memoria dal passato prossimo prepandemico al deserto del lockdown fino al labirinto attuale della cosiddetta fase 2. Lo spazio, che nell’accezione comune appare spesso come ciò che sommamente resiste alla forza umana, ne è invece da questa sempre profondamente plasmato e con velocità inaspettate.
Un aspetto altrettanto preoccupante che è necessario sottolineare è quello legato alla retorica che si è imposta a riguardo dell’epidemia trasformando il contenimento di una malattia in una metafora di guerra. La militarizzazione del linguaggio, dalla “guerra al virus” per arrivare alla comparazione dei morti da Covid con quelli dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, è un tentativo di mobilitazione popolare realmente pericoloso. C’è qui in gioco il tentativo di far ricomprendere il proprio destino misero e tragico in una missione collettiva dai confini incerti.
Il mondo attuale si avvia per questioni geopolitiche difficilmente aggirabili – tra le quali le più pressanti sono l’approvigionamento di risorse energetiche e la mancanza di liquidità monetaria – a una competizione interstatale sempre più feroce, la guerra guerreggiata anche su ampia scala diventa uno scenario sempre più plausibile. Questa esercitazione ideologica di massa fatta di morti, di eroi, di prime linee e retrovie, di bandiere e inni patriottici assume contorni quantomai inquietanti. L’emblematica immagine dei camion militari che portano via le salme dall’obitorio di Bergamo esprime una verità statale alquanto triste: quanto meno l’apparato sanitario e medico è in grado di gestire una situazione come questa tanto più la polizia e la militarizzazione avanzano.
L’ambito civile e quello militare non sono, quindi, due ambiti separati ma convivono in una sorta di continuità dove il prevalere dell’uno sull’altro è determinato dalla capacità di far fronte ai problemi che lo Stato si trova davanti. Ma l’avanzare del lato marziale dello Stato, per una strana legge ben nota ai suoi nemici, una volta avviato, non è un processo che si inverte automaticamente.
Lo spazio che si sono presi sarà necessario toglierglielo.
La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe
pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da
tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di
rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle
donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar
di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere
giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui
continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di
uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena
del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo
di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a
settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni
specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che
partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne
fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e
magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del
resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni
sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online
non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.
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