Smart exploitment

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Oramai Foodora, i suoi fattorini fucsia e le loro proteste sono note ai più. Dopo la prima giornata passata in strada a cercare effettivamente di mettere i bastoni tra le ruote al funzionamento della startup si è gonfiata una bolla mediatica attorno al caso Foodora e tutti, davvero tutti, hanno fatto a gara a prendere parola sulla faccenda. A parte il notevole interesse, desta stupore il parere positivo espresso da qualsiasi fonte e opinionista di turno nei confronti dell’atto di insubordinazione dei fattorini. Come mai lo stesso Poletti, volto fautore delle ultime norme che modificano il mercato del lavoro rendendolo ancora più flessibile, ovvero la possibilità di utilizzare i voucher con estrema facilità da parte delle aziende committenti piuttosto che l’abolizione dell’articolo 18, può prendere parola contro la startup berlinese?

Eppure a discapito del dilagante chiacchiericcio, la faccenda di Foodora ha portato alla ribalta alcune questioni generali che regolano l’attuale mercato del lavoro: tra i calcoli algoritmici che stabiliscono i tempi e l’organizzazione del lavoro si scorge una tendenza diffusa che vige nei rapporti tra capitale e manodopera. La richiesta di maggior competitività tra le aziende, richiesta dal mercato, fa sì che si intensifichi la precarietà imposta ai lavoratori. Come in Foodora, in tante altre mansioni i contratti con l’azienda fanno traslare completamente il peso del rischio sul lavoratore. Gli strumenti del mestiere e il modo per acquisire maggiori competenze per essere concorrente, con tutto il rischio di guasti o fallimenti, sono interamente a carico del lavoratore. Sia per i riders di Foodora che per tante cameriere gli ammortizzatori sociali, parte complementare di un sistema di messa al lavoro obsoleto, può essere solo un’inattendibile nostalgia.

La piattaforma per la gestione dei turni ottimizza l’incontro tra la domanda e l’offerta: il messaggio di notifica in cui l’app avvisa l’orario del turno da svolgere può arrivare la mattina per l’ora di pranzo e addirittura un rider durante il turno può essere rispedito a casa se il forecast si rivela errato e la sua presenza in strada risulta in esubero. L’azienda, attivando in maniera elastica e su richiesta la forza lavoro necessaria, tende a ridurre a zero lo scarto e il rischio, prevedendo e calcolando in maniera cadenzata e costante i pronostici della domanda. Non è il caso solo di Foodora, ma di tante startup o aziende temporanee che lanciano un modello di business nel mercato che si occupa di offrire frazioni di servizi e servizi sempre più diversificati e lo fanno cercando di rispondere a esigenze di economicità, attivando i lavoratori solo on demand.

I sostenitori della gig economy intendono questa estrema elasticità come un segnale di autonomia, la possibilità di auto-organizzare il proprio tempo e i compiti da eseguire. Infatti molto spesso il lavoratore deve trovare la maniera per muoversi con dimestichezza, vendersi come meglio può. La startup  calcola la velocità media a mettere a segno una consegna per ogni fattorino, che svolge una mansione semplice, le cui capacità specifiche si risolvono per lo più nel conoscere la viabilità, saper andare in bici e usare uno smart phone. Esiste quindi una graduatoria e i rider vengono scelti anche sulla base di questa. In questo contesto essere scaltri significa pedalare velocemente, saranno i più celeri a vedersi assegnate più commissioni. Il ranking, graduatorie o altri sistemi reputazionali non sono in uso sono nella gestione dei Foodorini, ma spesso dove c’è di mezzo una piattaforma, dove il capo è un algoritmo, questo sistema di organizzazione è la norma: viene incentivata così la superconcorrenza e la marginalizzazione di chi non sta al passo degli standard. Questo aspetto risulta ancora più problematico se lo si osserva attraverso il nuovo contratto imposto in Foodora con la paga a cottimo, dove ogni rider potrà assomigliare sempre più a un temerario imprenditore di se stesso.

Nel caso Foodora, non basta la giubbetta dello stesso fucsia per potersi riconoscere in mezzo allo smog e al traffico, tutti i lavoratori sono connessi alla piattaforma, ma sono ben separati l’uno dall’altro. Dalle condizioni strutturali del tipo di lavoro e della vita quotidiana: ognuno con la propria velocità media, ognuno nella sua zona, i suoi turni, e poi la sua vita da far combinare con i turni, la bici con i suoi guasti, le proprie bollette da pagare. Anche il rapporto con la dirigenza può confondere, è mediato da responsabili, spesso riders che hanno fatto carriera, che sono personaggi friendly e senza alcun potere decisionale, con cui il rider interloquisce in maniera individuale. Friendly perché hanno introiettato l’ideologia dell’azienda-famiglia, dove lo sforzo-sacrificio del lavoratore rende tanto al benessere dell’impresa quanto a quella del lavoratore, come in una grande famiglia dove i problemi si risolvono trovando una quadra, venendosi incontro. Finché non si scopre che il responsabile non ha voce in capitolo, ha fatto tutto il possibile ma su tale aspetto non può proprio cambiare nulla. Finché un lavoratore alza il tono e il responsabile può ometterlo dal piano dei turni. Così i fattorini si possono trovare in mezzo ad una flotta fluo, in tanti nelle stesse condizioni, ma ognuno solo.

Il caso di Foodora ha scoperchiato alcuni aspetti del mondo del lavoro in trasformazione; da tempo il modo di messa a valore della forza lavoro è cambiato. Il lavoratore non è più costretto dentro uno spazio e un tempo per produrre, imbonito da un sistema di piccole tutele, ma la tendenza a flessibilizzare in maniera estrema le condizioni del dipendente e a smantellare ogni tipo di garanzia si sta approfondendo. Il lavoro si occulta e diventa opera di trapezismo. Accettare i nuovi rapporti salariali vuol dire abituarsi ai piani che saltano, lasciare invadere anche il proprio tempo e spazio personale ben oltre quello tradizionale e separato dedicato al lavoro. Vuol dire cambiare la percezione che si ha di sé, vendersi rende aggressivi verso i competitori, indifferenti verso gli altri. Vuol dire faticare a orientarsi, a capire dove finisce il lavoratore sfruttato in mezzo ai suoi simili e dove inizia il suo nemico, seppur social e sorridente. Qualcuno con estrema riluttanza, altri meno, ma i tanti che per vivere devono lavorare e accettare ciò che viene proposto si mettono alla prova con questi codici, con questi problemi.

È però vero che nelle strade oltre a riconoscersi per il caschetto, i riders non hanno deciso di sgommare più veloce e nascondersi a vicenda la conoscenza di scorciatoie, si sono fermati, a chiacchierare, a mettersi d’accordo su come cercare di non farsi ricattare dal ranking, quindi di modulare la pedalata uniformando le velocità. E i malumori non sono ritornati nelle loro stanze assieme alle bici caricate sulle spalle, sono stati condivisi. Questo può essere davvero una cosa eccezionale per i tempi che corrono, infatti è il primo effettivo passo dei Foodorini che hanno alzato la testa contro la struttura che li mette al lavoro.

In un sistema dove i padroni sono scatole cinesi, dove i dirigenti sono capaci di volatilizzarsi, dove gli uffici sono spazi di cooworking è necessario interrogarsi su quali possano essere le pratiche efficaci per mettere spalle al muro chi dirige e gestisce. Potrebbe essere veramente difficile andare a prendersela con la scrivania che Foodora Torino affitta nello spazio di cooworking Tag e sortire qualche effetto. Guardando oltre Manica, Deliveroo, concorrente della tedesca Foodora, ma di origine anglossassone, ha cercato di attuare la medesima manovra di cambiamento di retribuzione nei confronti dei suoi lavoratori, ma ha trovato una forte opposizione nei suoi occupati, che sono riusciti a non cedere su nulla e a non essere licenziati. La multinazionale vive, si nutre e si moltiplica grazie alla ripetizione e alla diffusione del proprio brand, chi ha protestato contro Deliveroo ha messo in pratica l’oscuramento e la diffamazione della credibilità e la visibilità dell’azienda.

Anche nel giorno di protesta di inizio ottobre i fattorini in sciopero hanno cercato di infangare la credibilità di Foodora. Questa mossa li ha portati all’onore delle cronache, riscuotendo un sacco di simpatia. Ma come ha smosso gli equilibri questa ondata di opinioni favorevoli? A lungo andare volgere l’attenzione principalmente ai giornalisti, dedicare tempo ed energia al piano mediatico non rischia di anestetizzare la creatività nell’escogitare nuovi modi per lottare? Se la crescita di una lotta si ha per diffusione, per coinvolgimento di altri lavoratori complici e solidali di ogni sorta e natura, dare priorità alla comunicazione mediatica non rischia di toglierti dalla strada? Piuttosto che voler tenere l’opinione pubblica compatta non è più interessante approfondire i legami con i complici palesi o possibili?

A queste questioni non è immediato trovar risposta, ancora più complicato può essere ragionare a partire dai limiti intrinsechi del mondo del lavoro esistente oggi.

I lavoratori si sono trovati attorno a delle rivendicazioni a cui l’azienda ha risposto sostanzialmente con una bella pernacchia. Alla richiesta di aumento della paga oraria a sette euro e cinquanta hanno ricevuto una controproposta in cui ogni consegna a cottimo sarebbe pagata tre euro e settanta. Al rifiuto da parte dei fattorini di accettare la proposta, l’azienda non ha più fatto trapelare alcuna informazione, evitando ogni possibile ovvia reperibilità. Tocca ai lavoratori di oggi fare i conti sin da subito oltre che con la frammentazione imposta dai tipi di contratto con la necessità di mettere assieme una forza voluminosa, in senso quantitativo e d’efficacia, per poter scalfire la realtà e non essere immediatamente dirottati fuori dall’azienda o resi innocui. Gli strumenti in mano a chi lavora e vuol pretendere qualcosa non sono più così taglienti. Se i facchini nei centri della logistica hanno fatto scorgere la possibilità di riuscire a bloccare un nodo indispensabile, non delocalizzabile e quindi di poter vincere, all’indomani dei picchetti ci siam accorti che molte richieste sono impossibili, che il capitale riesce a fare a meno di tanti e che le condizioni di sfruttamento sono condizioni sine qua non per l’esistenza di un’azienda competitiva sul mercato. È la ripetizione costante e frequente di picchetti, proteste, cortei in tutti i vari centri della logistica che, addensandosi e continuando, ha portato a piccole conquiste. In giro per l’Europa gli operai delle fabbriche in via di delocalizzazione hanno reso evidente di quanto un conflitto ha poco tempo per bruciare e di quanto occorra bruciare tutto, e anche un po’ in fretta. A loro non rimaneva che la possibilità di prendere in ostaggio i mezzi di produzione per chiedere una liquidazione più alta, ma demordendo nel tentativo di fermare il trasloco dell’azienda verso zone dove la manodopera è più economica. Queste veloci suggestioni consigliano che mettendosi in ballo nel richiedere qualcosa in più all’azienda che ci sfrutta è necessario ideare un modo forte per metterla alle strette, coinvolgendo più lavoratori possibili, e avendo anche un po’ di fretta nell’ottenere risposte.

Se traspare che le lotte non hanno speranza in una lunga e tranquilla progressione, che un fatto non si somma ad un altro componendo un quadro di avanzamento, di certo su questi limiti non si frantuma l’utilità di lottare e non esaurisce la voglia di farlo. Imparare ad alzare la testa, toccare con mano la possibilità di avere altri tipi di legami, fuori da vincoli canonici, legami stretti nella complicità che solo le lotte sanno saldare, far sedimentare un nuovo modo di comunicare, discutendo, trasformando le proprie idee e tensioni in pratica, scontrandosi con chi ci strattona ed opprime fa diventare la lotta una lingua, un gesto comune, possibile, tentato costantemente. La diffusione di queste esperienze avvicina forse la possibilità di uno scontro più variegato, in cui non solo una categoria è interessata per risolvere le proprie necessità, ma può mettere assieme chi ritiene imprescindibile soddisfare una voglia o una necessità di rompere e cambiare più ampia.

Intanto, dopo la giornata concitata per le vie del centro a gridare contro Foodora, l’azienda ha continuato ad assumere a dismisura. Durante i colloqui per le assunzioni a chi domanda spiegazioni della protesta viene risposto che ciò sta danneggiando l’azienda e quindi anche la possibilità di guadagno delle persone che dovrebbero lavorare. Per frammentare ancora di più i riders al loro servizio è stata trasformata la chat che viene utilizzata per le comunicazioni. Prima si trattava di una chat in cui ognuno leggeva i messaggi di tutti, quindi si poteva avere la percezione della quantità dei colleghi e del tipo di controversie che prendevano luogo. Ora il modo di comunicare non è più collettivo ma un sistema a corridoi non comunicanti in cui ognuno si collega in maniera individuale al referente.

L’altra grande scelta della startup è stata quella di affidarsi a una agenzia di consulenza in comunicazione per le imprese, la Barabino & Partners. Per rifarsi la faccia è disposta a pagare un servizio super oneroso piuttosto che cedere qualcosa ai riders. A differenza del silenzio stampa mantenuto dopo le vergognose dichiarazioni sul lavoretto da tempo libero, ora il servizio di salvataggio dell’immagine fa trapelare alla stampa articoletti che abbozzano vacue rassicurazioni, firmati da articolisti che fino all’altro ieri palesavano una polemica contro la startup e il modello di occupazione proposto.

E per quanto riguarda i riders? Parecchi riders in sciopero sono chiamati a destra e a manca, da Montecitorio alle sale del comune cittadino. Ogni giorno sono zeppi di impegni e appuntamenti, un po’ stanchi e trafelati si avviano di qua e di là a portare la loro storia e le loro rimostranze. Viene da interrogarsi se la sindaca di Torino possa cambiare il modello di sfruttamento di una multinazionale. Intanto altri riders in lotta stanno cercando di andare a scovare i nuovi assunti oppure i pochi convinti. Cercando di superare la virtualità dei sistemi d’organizzazione del lavoro agganciano i rider sull’inizio del turno, nell’unico spazio fisico comune della loro attività, ovvero dove si devono collocare per la combinazione Gps corretta per far partire l’applicazione necessaria alla ricezione degli ordini. Sul posto sono state organizzate delle piole ambulanti per aggiornare tutti sullo stato della lotta e semmai coinvolgere qualcuno in più.

E dopo l’incontro di ieri con la dirigenza definito inconcludente dagli stessi fattorini la strada, l’unica, da percorrere ora è quella del rilancio della lotta.

Le sfide sembrano essere molte, ma vale la pena affrontarle.